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Il matrimonio in Italia
(dal sito Istat.it) Nel 2011 sono stati celebrati in Italia 204.830 matrimoni (3,4 ogni 1.000 abitanti), 12.870 in meno rispetto al 2010. Tale tendenza alla diminuzione è in atto dal 1972, ma negli ultimi quattro anni si è particolarmente accentuata: infatti, la variazione media annua è stata del -4,5% tra il 2007 e il 2011, a fronte di un valore del -1,2% rilevato negli ultimi 20 anni.
Il fenomeno ha interessato praticamente tutte le regioni. Nel periodo 2008-2011 il calo più marcato si è osservato in Sardegna (-7,7%), in Campania e nelle Marche (-6,9%) e in Abruzzo (-6,6%).
A diminuire sono soprattutto le prime nozze tra sposi entrambi di cittadinanza italiana: 155.395 celebrazioni nel 2011, circa 37 mila in meno negli ultimi quattro anni. Questa differenza spiega da sola l'82% della diminuzione osservata per il totale dei matrimoni nel 2008-2011.
Un altro 17% della diminuzione totale è dovuto ai matrimoni in cui almeno uno dei due sposi è di cittadinanza straniera: nel 2011 sono state celebrate 26.617 nozze con almeno uno sposo straniero (pari al 13% del totale), quasi 8 mila in meno rispetto al 2007, nonostante la lieve ripresa dell'ultimo anno.
In particolare, i matrimoni misti, cioè quelli in cui un coniuge è italiano e l'altro straniero, ammontano a 18 mila nel 2011 (5.555 in meno rispetto al 2007).
Diminuiscono anche i secondi matrimoni: da 34.137 del 2008 a 31.048 del 2011, ma la loro quota sul totale è in crescita dal 13,8% del 2008 al 15,2% del 2011.
Le nozze sono sempre più tardive. L'età media al primo matrimonio degli uomini è pari a 34 anni e quella delle donne a 31 anni.
Nel 2011 sono state celebrate con rito religioso 124.443 nozze, 39 mila in meno rispetto al 2008. I matrimoni civili subiscono una flessione più contenuta dovuta a quelli che riguardano cittadini stranieri. Per i primi matrimoni di coppie italiane, al contrario, la quota di unioni celebrate con rito civile è in continuo aumento: dal 18,8% del 2008 al 24% del 2011.
Si conferma la prevalenza dei matrimoni in regime di separazione dei beni (due su tre) e non si riscontrano più differenze di rilievo nelle diverse ripartizioni.









Matrimoni totali e primi matrimoni - Anni 1991-2011, valori assoluti







La nuova evangelizzazione aiutata dai musulmani



I migranti islamici aiutano l'occidente secolarizzato a riscoprire la dimensione del sacro, il pudore, ma anche il coraggio a testimoniare in pubblico la propria fede. I cristiani dimenticano di evangelizzare i musulmani perché troppo tiepidi e insicuri nella loro fede cristiana. La missione è un gesto di amore espresso attraverso l'amicizia. La testimonianza di uno degli esperti del Sinodo in corso in Vaticano.

di Samir Khalil Samir


(su AsiaNews) Beirut: Le migrazioni di musulmani in occidente sono una strada provvidenziale per noi cristiani per riscoprire la nostra fede e per evangelizzare queste comunità. L'Instrumentum Laboris del Sinodo sulla Nuova evangelizzazione parla della necessita di riscoprire la fede e la sua ragionevolezza e allo stesso tempo mette in luce le nuove situazioni e i nuovi areopaghi in cui si svolge la missione di oggi: fra questi vi sono appunto le migrazioni.

Buona Notizia e proselitismo
Va detto però che nel mondo musulmano già l'uso della parola "evangelizzare" è un problema. A tutt'oggi, la parola araba "tabshīr" è utilizzata dai musulmani per esprimere un proselitismo di tipo negativo, un aspetto aggressivo della missione. Spesso, discutendo con i miei amici islamici, io spiego loro che invece il verbo si usa anche nel Corano, in modo molto nobile. Nel libro sacro ai musulmani, si mette questa parola nella bocca di Gesù, che dice: " Io vi porto il lieto annunzio ("vangelo") di un profeta che verrà dopo di me il cui nome è Ahmad" (wa-mubashshiran bi-rasulin ya'ti min ba'di smuhu Ahmad = Corano 61:6). In pratica, secondo il Corano, Gesù porta il lieto annunzio profetizzando la venuta di Maometto.
I musulmani citano spesso questa frase, come uno dei loro "dogmi" o delle cosiddette "prove" che dimostrano la superiorità dell'islam sul cristianesimo, Maometto essendo l'ultimo profeta mandato da Dio all'umanità, il "sigillo dei profeti" (khâtam al-nabiyyîn), come dice il Corano 33:40. Anni fa insegnavo filosofia araba all'università del Cairo. I miei studenti (18 in tutto) erano tutti musulmani. Un giorno, alla fine di un corso, uno di loro mi ha accusato: "Lei è venuto qui per fare proselitismo! (tabshīr)". Io gli ho risposto che mi faceva troppo onore, perché secondo il Corano sono i profeti che fanno tabshir e addirittura Cristo stesso. Lui, un po' confuso, mi risponde che non intendeva usare quella parola in quel senso. E io gli ho detto che non conoscevo altro senso se non quello con cui la parola è usata nel Corano.
Musulmani e cristiani con un messaggio al mondo intero
La discussione è servita a chiarire le nostre reciproche posizioni. Voi musulmani - spiegavo - avete l'obbligo di fare la Da'wa; avete istituzioni politiche e sociali per fare "l'appello" alla fede, per invitare i non musulmani a aderire all'islam.
Io trovo giusto che voi invitiate la gente a diventare musulmani, perché è segno che ci credete sul serio. Ma anche noi cristiani abbiamo questo obbligo di annunciarvi il lieto annunzio del Vangelo. Come lo dice il Signore risuscitato ai suoi discepoli: "Andate nel mondo intero, proclamate la Buona Notizia (= Vangelo) a tutta la creazione" (Marco 16:15). Si tratta dunque di una missione universale, valida per tutti e tutte.
Insomma, occorre ricordare a noi e ai musulmani che l'evangelizzazione non è scovare trucchi per convertire o manipolare l'altro, ma il desiderio di mettere a disposizione dell'altro quanto di bello abbiamo scoperto nella nostra vita.
Verità e Libertà, per amore dell'altro
Il problema è che i musulmani non permettono questa libertà di evangelizzare, col motivo che nessuno ha la libertà di rinunciare alla Verità che è nell'Islam. Ma usano di tutti i mezzi per fare la Da'wa, la propaganda islamica. Basta un minuto per fare la doppia proclamazione di fede, la shahâda: "Proclamo che non c'è altro Dio che Dio, e che Muhammad è suo Profeta!"
Spesso spiego ai miei amici musulmani che la libertà è il dono più grande che Dio abbia fatto all'umanità. Dio ci lascia liberi di fare il male, non ci punisce tutte le volte che sbagliamo, anzi ci permette che ci allontaniamo da lui. Certo, Lui c'indica la via del bene, a traverso l'insegnamento dei suoi Messaggeri, ma non obliga nessuno a seguirla.
Ciò significa che la libertà di scelta è fondamentale anche per Dio! Del resto, quel che distingue l'animale dall'uomo è proprio la coscienza. L'animale è programmato con l'istinto, che li permette di agire istintivamente in conformità con la sua propria natura. L'uomo è libero: puo' scegliere di fare il male, puo' scegliere di ubriacarsi o di mangiare oltre misura fino ad esserne malato. Non ha l'istinto che lo guida in modo sicuro; invece ha la sua coscienza, che deve pero' affinare ed educare.
Ciò significa che occorre avere la libertà di scegliere la via che voglio seguire. Occore avere la libertà di annunciare il Vangelo o il Corano per promuovere l'atto di libertà, cosi' tipico dell'Uomo. Questo significa anche che l'annuncio non può essere un atto di conquista, ma solo un gesto di amore verso l'altro.
Evangelizzazione, un obbligo di amore
L'evangelizzazione per noi cristiani è un obbligo evangelico ed un obbligo di amore (Matteo 28, 19-20). Ma per motivi sociologici o altro, ci vergogniamo di farlo, magari per un falso rispetto della libertà altrui. Ma se è per amore che evangelizziamo, allora troverò il modo di trasmettere la cosa più bella che posseggo ed essere pronto anche a ricevere il loro messaggio.
Un esempio: per me, ogni giorno, sentendo il muezzin, io mi ricordo di Dio e mi metto a pregare col cuore con i musulmani che in questo momento alzano il cuore verso Dio, in uno scambio di esperienze spirituali. Di fatto, senza saperlo, i musulmani ci stanno evangelizzando.
Il musulmano infatti non ha timore di presentare la sua fede; il cristiano in Occidente si vergogna, pensando che la sua fede è un valore privato. Perciò, in Occidente i cristiani - guardando i musulmani - devono convertirsi per comprendere che la religione fa parte delle realtà spirituali della vita, affianco a tutte le altre e non c'è bisogno di nasconderla. Dobbiamo imparare a essere orgogliosi della nostra fede, senza per questo cadere nell'ostentazione o nella propaganda e il proselitismo.
L'immigrazione musulmana, un atto della Provvidenza divina
Anche la presenza di gruppi musulmani nei Paesi europei e occidentali richiede con urgenza l'evangelizzazione. Nei Paesi islamici è quasi impossibile invitare un musulmano a scoprire il Vangelo. Quasi ovunque, anche nei Paesi musulmani detti "laici" (Turchia, Tunisia per esempio), la conversione dall'islam al cristianesimo non è, in pratica, un atto banale o permesso. Tale difficoltà è dovuta al fatto che l'islam, essendo una realtà politico-militare come anche religiosa-spirituale, considera la conversione come un tradimento della "Nazione musulmana" (la Ummah), e vieta l'evangelizzazione sotto pena di prigione o di morte.
Ma l'immigrazione ha cambiato i connotati della questione. In Europa occidentale ci sono circa 15 milioni di musulmani. Troppo spesso si vede questo loro arrivo come un'invasione, e forse lo è in una certa misura, perché sta cambiando troppo velocemente la struttura della società, e rischia di modificare profondamente la società nel futuro.
Ma c'è anche un'altra lettura possibile. Se quest'immigrazione, essenzialmente per motivi economici, fosse un gesto della Provvidenza divina che manda i musulmani in un terreno più liberale e neutrale. Perciò, invece di vedere l'immigrazione come un'aggressione, vediamola come una possibilità di incontro e di scambio di valori: loro presentano la loro spiritualità, e noi abbiamo la possibilità di presentare con libertà la nostra spiritualità. Mi sembra più costruttivo e positivo cambiare registro e vedere questa immigrazione come un dono di Dio.
Semplicità e coraggio per dirsi credente ed annunziare l'Amore di Dio in Cristo
Ma di fatto mi sembra che siamo noi cristiani ad essere carenti. I musulmani - magari con il loro modo talvolta eccessivo di esibire la loro religione - ci spingono a riscoprire la nostra spiritualità e il coraggio di proclamarsi con semplicità credente: una volta noi attraversavamo anche i mari sconosciuti per annunciare il Vangelo; ora diciamo che perfino a casa nostra "è impossibile annunciare" perché "l'ambiente sociologico non lo permette" o perché "bisogna andare cauti", oppure per un falso "rispetto" dell'altro.
Invece, in Europa, ormai un musulmano può entrare in una chiesa quando vuole; se vuole leggere il Vangelo, può acquistarlo in una libreria (in alcuni Paesi islamici è proibito introdurre Vangeli). Dobbiamo guardare questa situazione di libertà come una grande occasione di evangelizzazione, e con infinito rispetto della libertà loro. Non dobbiamo essere irrealisti, ma dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento verso i musulmani, pensando che anche loro attendono l'amore infinito di Gesù.
Come evangelizzare i musulmani?
Come si fa l'evangelizzazione con i musulmani? La cosa primaria è l'amicizia. Evangelizzare non è aggredire, ma creare amicizia senz'altro scopo che la simpatia, l'accoglienza, la fraternità. E questo si può fare ovunque: per strada, coi vicini, a scuola, nel lavoro, nel bus, nel treno ... E parlando, affrontando i problemi della vita, dei figli, ognuno comunica la propria visione, testimonia i propri valori e il fondamento della propria fede.
Per esempio, talvolta mi trovo con alcuni musulmani che osservano il puro e l'impuro nei cibi, e provano disgusto a vedermi mangiare del maiale. Io spiego loro che per noi cristiani "tutto è puro per quelli che sono puri", come dice Paolo (Tito 1:15), in conformità con l'insegnamento di Gesù : "Non quello che entra nella bocca rende impuro l'uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l'uomo!» (Mt 15:11). Perciò, per noi non vi sono divieti sul cibo. Questa piccola cosa mostra che perfino nelle cose di tutti i giorni noi possiamo offrire il segno della novità cristiana.
Oppure quando due mamme scambiano le loro esperienze con i figli e le figlie, c'è il messaggio del Vangelo che passa attraverso scambi apparentemente banali ... se siamo penetrati dal Vangelo. L'evangelizzazione comincia con noi stessi, con lasciarci prendere da Cristo per vivere più seriamente l'ideale del Vangelo.
In Europa ci sono migranti della prima o della terza generazione, che non si sentono accettati: questa vicinanza fraterna, piena di testimonianza è importante. L'evangelizzazione non è un corso di teologia sulla Trinità, non suppone studi particolare. L'evangelizzazione è una testimonianza di vita fraterna, solidare e pura.
Siamo anche evangelizzati dal musulmano
Allo stesso tempo, in una società occidentale così secolarizzata, dove il denaro è diventato una divinità (il Mammone del Vangelo) (Matteo 6:24, e Luca 16:9-13), dove il sesso è divenuto una cosa banale, quasi un gioco o uno sfogo di tipo animale, certi atteggiamenti di pudore dei musulmani sono importanti anche per noi. E il richiamo quotidiano del musulmano all'unicità divina: Non c'è altra divinità che Dio: né soldi, né sesso, né potere ... solo Dio conta, ci riporta all'essenziale della fede cristiana.
Troppo spesso in Europa incontro vescovi e sacerdoti che sono fin troppo cauti nella testimonianza e nell'evangelizzazione verso i musulmani. Essi preferiscono lasciare ognuno nella sua religione, perché tanto "tutti si salvano nella loro tradizione"... e qualcuno aggiunge "come l'ha insegnato il Vaticano II" ! In realtà in questione qui non c'è la salvezza finale (che è un affare di Dio), ma il desiderio di condividere la gioia della salvezza ora. E l'amore consiste nel comunicare all'altro ciò che io ho ricevuto.
In conclusione
Nel cristianesimo odierno in Europa c'è una mancanza di convinzione nel Vangelo. Lo scambio e la convivenza fra cristiani e musulmani ci potrà aiutare a scoprire la ricchezza della fede cristiana. Quando un musulmano mi parla della bellezza e della pratica della sua fede, o della preghiera, dell'adorazione, ecc... risveglia in me elementi simili presenti nella mia tradizione. Attraverso i musulmani possiamo riscoprire il valore del sacro nella vita e riscoprire la ricchezza della nostra tradizione. Diam's, la cantante rapper francese di origine cipriota, Mélanie Georgiades ,si è convertita all'islam perché ha scoperto quanto i musulmani ci tengono alla preghiera.
L'immigrazione musulmana ha certo in alcuni casi un carattere aggressivo, soprattutto quando i musulmani pretendono di seguire i loro costumi e le lore norme in Occidente, con poco rispetto per i costumi e norme del Paese d'immigrazione. E' una realtà di ogni giorno - ma non è una realtà generalizzata - che bisogna osservare con attenzione.
Mi sembra però più importante di guardare alle migrazioni non come un'aggressività da temere, ma come una possibilità di scambio di esperienze profonde, e soprattutto come un'occasione provvidenziale. Essa ci aiuta a superare la secolarizzazione, ci porta alla riscoperta del Vangelo e ci spinge ad annunciarlo.



 Samir Khalil Samir


Musulmani convertiti a Cristo mal visti dalla Umma e dalle comunità cristiane



Mohammed Christophe Bilek lancia un appello ai musulmani perché difendano la libertà di coscienza e il diritto di un musulmano a cambiare la sua religione, allo stesso modo in cui esiste il diritto di un cristiano ad abbracciare la religione islamica. Nello stesso tempo, egli chiede ai cristiani di non emarginare i convertiti e lavorare per garantire i loro diritti nei Paesi islamici e in Europa.



Parigi (AsiaNews) - Persecuzione diretta da parte della comunità islamica; imbarazzo e indifferenza verso la loro sorte da parte dei cristiani: è la situazione che affrontano molti musulmani che si sono convertiti al cristianesimo, non solo nei loro Paesi di origine, ma anche in Europa, dove - invece di garantire la libertà di coscienza - si difende soltanto la libertà per i musulmani di testimoniare la loro fede. Mohammed Christophe Bilek lancia un appello con questa lettera inviata ad AsiaNews.

Mohammed Christophe Bilek è nato in Algeria nel 1950 e vive in Francia dal 1961. È l'autore di due libri, "Un algerino non troppo cattolico" (1999, Cerf) e "Sant'Agostino raccontato a mia figlia". Dagli anni '90 egli è anche il responsabile del sito Notre Dame de Kabylie, per l'evangelizzazione dei musulmani e il dialogo islamo-cristiano.


 Cari amici, se la persecuzione è il destino di numerosi cristiani, che dire dei musulmani che vogliono diventare cristiani? Essi sono come dei bambini che stanno per nascere, ai quali si rifiuta il diritto di esistere!
Questa settimana, un algerino battezzato a Pasqua mi ha detto: "Questa comunità [musulmana] mi fa stare male, questa Umma che vuol fare di me il suo schiavo! Non è Allah che fa di me il suo schiavo - come essi pretendono - ma essa...nel nome di Allah! Io non voglio essere prigioniero di un dogma, non voglio vivere nella menzogna! Al contrario, Dio mi chiama alla verità del Vangelo che libera. Io non impongo la mia fede a nessuno, nemmeno a mia figlia... Perché mi si vuole imporre la fede musulmana?".
Sì, cari amici, coloro che oggi scelgono di seguire Gesù Cristo, come me già più di 40 anni fa, si nascondono anche in Francia, in Europa, per paura di violenze e rappresaglie familiari o comunitarie. A maggior ragione, immaginate la vita dei nostri fratelli che non hanno la possibilità di vivere in Paesi che rispettano la libertà di coscienza, che vivono seppelliti in Marocco o in Tunisia, per esempio.
Essi ci supplicano, vi implorano di pregare per loro e di non dimenticarli. Ma occorre fare di più e prendere le loro difese contro leggi liberticide che non vengono da Dio, ma dagli uomini, checché ne dicano coloro che le vogliono imporre.
Come prendere le loro difese? Con le armi? No, certo. Piuttosto, con le armi del Vangelo: quelle della giustizia, della verità, della carità, della fraternità.
Quanto a giustizia e verità, si continua a negare questa evidenza: che noi, in quanto cristiani, in tutto il mondo musulmano, siamo spogliati dei nostri diritti e della libertà. Basta ricordare la legge sull'apostasia, istituita con la sharia e praticata da numerosi Paesi come l'Arabia saudita o l'Iran.
Lasciate che vi domandi: forse Gesù Cristo ha imposto la sua legge? Sebbene essa sia una legge d'amore, ha mai Egli forzato qualcuno a praticarla? Forse che la Chiesa cattolica, per esempio, scomunica e lancia della fatwa contro coloro che la abbandonano per divenire musulmani? Forse che essa minaccia i fulmini e l'inferno per il fatto che essi sono iscritti sui registri del battesimo?
No, certo. E perché? Perché la fede è un'adesione liberamente consentita da Dio. E dunque a Lui ognuno renderà conto.
Ora, questo diritto di abbandonare il cristianesimo, riconosciuto ai convertiti all'islam, perché non è riconosciuto a coloro che vogliono abbandonare la religione musulmana per seguire Gesù Cristo? Vogliamo dunque dire ai musulmani sinceri: mostratevi caritatevoli e accettate questa uguaglianza davanti a Dio, solo giudice, in modo definitivo e senza concessione! Ditelo pubblicamente, almeno qui in Francia, in Europa, dove voi reclamate i vostri diritti. Siate conseguenti e credibili, ammettendo uguali diritti umani ai vostri fratelli che hanno scelto un'altra via!
Riguardo alla fraternità cristiana, non posso che citare ancora le parole di quell'algerino: "I musulmani mi fanno stare male, è un fatto, perché essi si immischiano nella mia vita interiore, mentre essa riguarda [solo] Dio; ma quelli che mi uccidono sono questi fratelli cristiani, che chiacchierano con i musulmani, ma non levano nemmeno il dito mignolo per aiutarci: forse ci prendono per dei bugiardi? Mi domando: per loro siamo dei falsi fratelli o dei fratelli di secondo ordine?".
L'amico algerino ha ragione: come si può credere alla sincerità di questi cristiani, convinti o no, che qui in Francia e in Europa, hanno in bocca solo parole come "islamofobia", "stigmatizzazione dei musulmani", ma si tacciono o si volgono altrove per non vedere le sofferenze e gli abusi che i cristiani subiscono, impediti di vivere la loro fede nei loro Paesi d'origine e nei loro Paesi di esilio? Non accade forse che essi pongono una discriminazione fra noi e loro? Senza arrivare fino a parlare di razzismo, non praticano forse una segregazione fra noi e loro? Essi si credono giusti, ma denunciano solo alcune ingiustizie.
In conclusione, vogliamo riaffermare qui, davanti a Dio, per coloro che hanno orecchie per intendere, le parole di una celebre figlia di Francia: noi non abbiamo il compito di convincervi. Ad ogni modo, poiché nostro Signore deve essere il primo ad ricevere il nostro servizio, in accordo con Giovanna di Francia [d'Arco],.. e poiché la nostra anima appartiene a Dio, secondo l'espressione di sant'Agostino, ... noi testimoniamo pubblicamente che oggi Gesù Cristo è perseguitato nei fratelli e nelle sorelle che provengono dalla tradizione musulmana.



Mohammed Christophe Bilek




Eventi:
























VERA E FALSA TEOLOGIA
Mons. Antonio Livi
Firenze, 31 maggio 2012

Comunità Cattolica Tedesca Chiesa dei Santi Michele e Gaetano
Piazza Antinori – Firenze
Giovedì 31 maggio 2012 ore 21
Conferenza
PER UN’AUTENTICA «SCIENZA DELLA FEDE» NELL’ATTUALE CONGIUNTURA STORICA
NELL’OCCASIONE SARÀ PRESENTATO IL LIBRO DI ANTONIO LIVI:
VERA E FALSA TEOLOGIA
Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”
CASA EDITRICE LEONARDO DA VINCI - Roma 2012

interverranno
MONS. ANTONIO LIVI
PADRE GIOVANNI CAVALCOLI O.P.
PROF. PIETRO DE MARCO
PADRE SERAFINO M. LANZETTA F.I.




IL VATICANO II NEL SOLCO DELLA TRADIZIONE DELLA CHIESA
Padre Serafino Lanzetta
Siena, 2 giugno 2012

Sabato 2 giugno nel Centro Pastorale e Culturale Benedetto XVI in via aretina, 174 a Siena sarà ospite padre Serafino Lanzetta che presenterà il suo ultimo libro sul Concilio Vaticano II per comprendere meglio la giusta interpretazione secondo il pensiero di Papa Benedetto XVI.

Nell'occasione sarà disponibile il nuovo libro di Padre Lanzetta "Iuxta Modum" ed. Cantagalli.
Per l'occasione saranno presenti, oltre che l'autore, anche l'editore e il giornalista Alessandro Gnocchi.
Sono invitati soprattutto i catechisti e i cattolici che vogliono approfondire un tema così decisivo in questo anno che vedrà l'inizio dell'anno della Fede con il quale il Papa ci invita a riscoprire il vero senso dei documenti dell'ultimo concilio ecumenico della Chiesa.






Qual è il vero bene per la Chiesa in Cina
del Card. Joseph Zen Ze-kiun su AsiaNews

Alla vigilia di un importante incontro a Roma su “Gesù nostro contemporaneo”, il card. Zen chiede a tutti i cattolici di aiutare la Chiesa in Cina (e soprattutto i suoi vescovi ufficiali) di uscire dall’ambiguità, seguendo Benedetto XVI e di “disfarsi” di organismi nemici della fede (v. Associazione patriottica, ufficio affari religiosi, ecc.), che controllano e soffocano i fedeli. La Chiesa cinese è sull’orlo di uno scisma dovuto a “mercanteggiamenti” fra la fede cattolica e il potere politico. Il sottotitolo di questo articolo (voluto dall’autore) è:”In dialogo con la Comunità di Sant’Egidio e con Gianni Valente di 30Giorni”.

Hong Kong (AsiaNews) - Desidero anzitutto dichiarare tutto il mio rispetto per il grande zelo dei miei amici della Comunità di Sant’Egidio e del mio caro amico Gianni Valente di 30Giorni nei riguardi della Chiesa in Cina. Voglio confermare anche la mia riconoscenza per la loro lunga amicizia nei miei riguardi.

Siccome però da un po’ di tempo non cercano più di incontrarmi ed io trovo qualcosa di preoccupante in quello che fanno e dicono nei riguardi della nostra cara Chiesa in Cina, credo che sia cosa più proficua che io entri in questa pubblica conversazione attraverso la parola stampata e prendo spunto dall’articolo di Gianni Valente su “30Giorni” Numero 9 (2011): “Intervista con Giovanni Battista Li Su Guang, Vescovo coadiutore di Nanchang”

Le mie domande

Dopo aver letto con attenzione le pagine 30-35 non riesco a conciliare le bellissime parole di Mons. Li nell’intervista con il fatto recente, riportato pure onestamente da Gianni Valente, che cioè il giorno 14 luglio Sua Eccellenza ha partecipato alla ordinazione episcopale illecita di Huang Binzhuang di Shantou [1].

Mi domando anzitutto: perché la Comunità di Sant’Egidio debba invitare a quell’incontro internazionale persone come mons. Li che sono dal punto di vista ecclesiale gravemente compromesse[2]. Ovviamente, vengono accolti con grande cordialità, il che va bene, e con onore, il che non va bene.

Domando poi perché Gianni Valente di 30Giorni debba intervistare simili persone, quando si sa che non sono libere di dire quello che pensano. Come può mons. Li Suguang affermare che “la Chiesa in Cina non ha cambiato un solo iota dalla tradizione apostolica”, quando non molto tempo prima ha partecipato (forzato o meno) ad un atto che gravemente ferisce l’unità della Chiesa dopo recentissimi chiari richiami della Santa Sede sulla gravità di simile atto.

Lettura della situazione

C’è evidentemente una situazione dolorosa in Cina e tutti siamo ansiosi di fare qualcosa per venire incontro a quei nostri fratelli. Ma il problema è: fare che cosa? Perché da noi si dice che “con il buon cuore si possono fare cose cattive”, cioè nocive a quelli a cui abbiamo intenzione di fare del bene.

Per poter discernere che cosa è oggettivamente bene e che cosa non lo è nella presente situazione, bisogna anzitutto concordarci su come leggere questa situazione.

Mi pare che tutti dobbiamo essere d’accordo nell’ammettere, come afferma il Santo Padre nella sua Lettera del 2007 che la situazione della Chiesa in Cina è anormale soprattutto perché non i nostri vescovi, ma organismi estranei alla Chiesa – Associazione Patriottica, Ufficio per gli Affari Religiosi – stanno guidando la nostra Chiesa.

Quasi cinque anni dopo la pubblicazione della Lettera, questa realtà non sembra per niente cambiata. Perché?

Da una parte, il Governo di Pechino non ha cambiato uno iota nella sua politica religiosa di oppressione; vuole avere assoluto controllo delle religioni e, nel caso della Chiesa Cattolica, vuole staccare la Chiesa in Cina dall’obbedienza alla Santa Sede.

Da parte nostra, purtroppo, qualcuno non ha accolto sinceramente la Lettera del Papa. Anzi, ha osato manometterla nella sua presentazione, nella traduzione in cinese, e nella sua interpretazione, per cui si è sorvolato sull’ecclesiologia, che invece era stata sottolineata dal Papa, e si è tendenziosamente interpretato l’incoraggiamento del Santo Padre alla riconciliazione come se fosse un invito ad un indiscriminato “travaso” delle due comunità: quella sempre più assoggettata al Governo e quella che era andata in clandestinità per evitare tale soggezione.

Lungi da me qualunque giudizio morale sulle persone in quello che ho detto e sto per dire, ma ovviamente molti errori sono stati commessi negli anni recenti.

Un po’ di storia recente

Sua Eminenza il Cardinale Josef Tomko, quando è stato fatto Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, aveva già molta esperienza di partecipazione alle sollecitudini del Santo Padre per la Chiesa universale. Questa esperienza, unita alla sua provenienza da un Paese comunista, lo rendeva molto preparato a capire la situazione della Chiesa in Cina. Data poi la politica di apertura di Pechino, gli arrivavano molte informazioni sulla situazione, che gli consigliarono opportuni provvedimenti ovviamente approvati dal Santo Padre.

Oltre alla sua prioritaria premura per la comunità clandestina, si era aperto ad una grande comprensione degli anziani vescovi della comunità ufficiale, ordinati illegittimamente in situazioni veramente difficili e sotto grave pressione. Nell’accogliere le loro petizioni di legittimazione, egli richiedeva il consenso del vescovo clandestino (se esisteva nella stessa diocesi) oppure l’opinione dei vescovi clandestini viciniori. Nelle diocesi dove esisteva un vescovo clandestino, questi veniva confermato come Ordinario, mentre quello ufficiale veniva legittimato come Ausiliare. Naturalmente, questa dipendenza canonica era reale in situazioni particolarmente favorevoli, come a Wuhan, mentre altrove essa rimaneva come affermazione di diritto, anche se in realtà i due non erano in grado di consultarsi nell’esercizio del loro ufficio pastorale.

Simili disposizioni venivano praticate quando giovani candidati, eletti nella comunità ufficiale, si credevano in dovere di chiedere l’approvazione della Santa Sede prima dell’ordinazione episcopale.

Nel 2000, il Cardinale Tomko, avendo compiuto 75 anni, a norma dei canoni andò in pensione. Nello stesso tempo, all’interno della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, avvenne un completo cambio di personale. La mancanza di esperienza e di expertise causò un vuoto di pensamento e di provvedimenti. La linea iniziata dal Cardinale Tomko andò avanti per forza d’inerzia, ma senza quella accuratezza con cui era cominciata. Molti membri della comunità clandestina si lamentavano che troppo facilmente si legittimavano i vescovi ordinati illegittimamente e si approvavano i nuovi candidati, mentre alla comunità clandestina non si davano più nuovi vescovi quando gli anziani pastori venivano a mancare.

Il successore del successore del Cardinale Tomko [il card. Ivan Dias – ndr] aveva l’esperienza di aver lavorato insieme al Cardinale Casaroli. Purtroppo questo, che poteva essere un suo punto forte, risultò invece una limitazione, in quanto egli credeva che l’Ostpolitik del famoso Cardinale avesse operato miracoli nei Paesi comunisti dell’Europa dell’Est, mentre si sa che almeno il Cardinale Wyszyński e Papa Woytiła non erano dello stesso parere e molti ecclesiastici di quei Paesi criticavano severamente tale politica. Il Cardinale Casaroli diceva che bisognava cercare se non un “modus vivendi”, almeno un “modus non moriendi”, ma in realtà la fede di quelle Chiese deperiva.

Veniamo alla realtà in Cina. Nella convizione che non si poteva porre resistenza allo strapotere del Governo assolutista, si è adottata una strategia di compromesso, se non ad oltranza, almeno in misura preponderante. E che cosa vediamo ora? Vediamo che la comunità clandestina che pure allora fioriva, adesso corre il rischio di morire di frustrazione e di scoraggiamento, perché sembra trascurata e considerata inconveniente dalla Santa Sede. La comunità ufficiale sembra viva e vegeta con le sue chiese aperte piene di fedeli e con i suoi vescovi, molti dei quali con doppia approvazione cioé del Governo e della Santa Sede, ma qual’è la vera realtà? Una doppia vittoria?

Quando Gianni Valente voleva far sembrare che tutto andava bene perché molte ordinazioni episcopali avevano avuto la doppia approvazione, io ho messo un punto interrogativo in quanto c’era da sospettare che nelle trattative fosse stata la Santa Sede a cedere più che non la controparte cinese.

Fatti recentissimi

Dopo molta (direi soverchia) accondiscendenza da parte della Santa Sede, il Governo cinese non mostra alcuna volontà di rispettare la natura essenziale della Chiesa Cattolica, come viene accettata pacificamente in tutte le parti del mondo civile. Difatti, al primo caso in cui l’approvazione della Chiesa tardava ad essere concessa, il Governo ha proceduto di nuovo unilateralmente ad una ordinazione illegittima a Chengde (novembre 2010), seguita da altre due, una a Leshan (giugno 2011) ed una a Shantou (luglio 2011). Il Governo cinese ha così mostrato di non avere alcuna intenzione di cambiare la sua politica religiosa.

Davanti a tali atti di sfida, che hanno tradito la sua sincera volontà di dialogo, alla Santa Sede non rimane che ritornare sulla linea della chiarezza. Non si può perciò accusare la Santa Sede di chiusura.

Cambiamento di rotta

Riflettendo sul recente passato, si è potuto constatare che una politica troppo accondiscendente non otteneva il desiderato contraccambio da parte del Governo e che nel frattempo l’errata compassione ha indebolito la Chiesa al suo interno. Perfino il Santo Padre, ha lanciato l’allarme sulla possibile infiltrazione di elementi opportunisti nelle posizioni direttive della Chiesa[3].

Non si poteva indugiare più. Il cambiamento di rotta è stato visibile a tutti nelle recenti prese di posizione di fronte alle ultime due ordinazioni illegittime.

Comprendo come coloro che credevano in una doppia vittoria nella precedente situazione di compromesso ora pensino che la Chiesa sia in errore per la sua posizione ferma e chiara e che loro giudicano essere chiusura.

Per chi, specialmente attraverso l’Internet dall’interno della Cina, ha il polso su come il popolo fedele vede gli avvenimenti, la linea di chiarezza e fermezza è stata sapiente e necessaria per riconquistare la fiducia di molti che si sentivano smarriti davanti a vescovi che, pur in comunione con la Santa Sede, compivano atti contro l’unità della Chiesa senza che la Santa Sede prendesse seri provvedimenti. Infatti, in passato, la scomunica contemplata nel Codice di Diritto Canonico è stata sovente richiamata, ma non fatta valere concretamente.

Ovviamente la situazione presente è ben differente da quella di qualche decennio fa. Paragonare i presenti vescovi della Chiesa ufficiale con, per esempio, la venerata figura del defunto vescovo Li Duan tradisce una completa ignoranza dei fatti.

Qualcuno ha fatto apparire lo scrivente come uno che allegramente applaudisce al lancio delle scomuniche. Ma i fatti registrati nella storia possono provare che io sono stato tra i primi, vent’anni fa, a patrocinare la causa di quelli della comunità ufficiale. Ho perfino dichiarato davanti all’augusta Assemblea Sinodale per l’Asia che in Cina c’era una sola Chiesa. Ma oggi non ne sono più così sicuro.

Sappiamo certo che quei nostri fratelli sono oppressi dalle minacce e dagli allettamenti del Governo, ma davanti al problema così fondamentale dell’unità della Chiesa Cattolica il nostro dovere è di incoraggiarli al coraggio, come pure ha fatto tante volte il Santo Padre. Sarebbe falsa compassione mostrare che i loro cedimenti siano giustificabili.

Ora invitare ad incontri all’estero vescovi compromessi in atti oggettivamente distruttivi della unità della Chiesa sembra molto inconveniente, perché in tali occasioni riceveranno verosimilmente solo atti gentili di incoraggiamento che poi vengono anche abusati come approvazione, da parte del resto della Chiesa, del loro operato. Intervistarli, poi, equivale a far parlare gente che non è libera di dire la verità e che diranno solo cose che favoriscono la causa del Governo. È crudele nei riguardi dell’intervistato ed è ingiusto nei riguardi dei lettori, i quali avranno una cognizione deformata della realtà.

Il fatto è che siamo sull’orlo di uno scisma, con queste ripetute dichiarazioni di voler fare una Chiesa indipendente e di continuare ad ordinare vescovi senza il mandato pontificio.

Non tutti gli atti gentili sono di vera carità, quando non aiutano ad essere fedeli alla vera natura della Chiesa. Non parliamo, poi, dell’effetto addolorante che questi incontri hanno sui membri della comunità clandestina, i quali non possono non sentirsi smarriti vedendo membri della Chiesa universale onorare questi fratelli in situazione di grave compromesso.

Conclusione

Rispondendo alla domanda formulata nel titolo di questo scritto, penso di poter dire che il vero bene per la Chiesa in Cina è di tornare alla sua vera natura come data dal suo fondatore Gesù Cristo e come esposta nella Lettera del Papa alla Chiesa in Cina, cioè, ad essere veramente Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica.

Il vero bene per la Chiesa in Cina non è di consolare gli oppressi perché rimangano nella loro ambigua situazione, ma di incoraggiarli ad uscirne.

Il vero bene per la Chiesa in Cina non è di continuare a mercanteggiare con organismi non solo estranei ma chiaramente ostili alla Chiesa, ma di mobilitare vescovi e fedeli a disfarsi di questi.

Sto parlando di cose impossibili? Tutto è possibile a chi vuole rimanere fedele ai disegni di Dio, dal quale viene la forza agli umili e il coraggio ai deboli.

[1] Cfr. AsiaNews.it, 14/07/2011 Otto vescovi in comunione col papa costretti all’ordinazione illecita di Shantou (nota dell’editore).

[2] Il card. Zen si riferisce all’incontro “Religioni e culture in dialogo”, organizzato dalla Comunità di S.Egidio a Monaco di Baviera dal’l11 al 13 settembre 2011 (nota dell’editore).





Cristiani e musulmani a un anno dalla primavera araba
di Samir Khalil Samir su AsiaNews

La rivolta araba si è diffusa come un incendio nell’erba secca. Tutti i Paesi ne sono stati affetti. Ma le novità si scontrano con la presa di potere degli islamisti. I timori dei cristiani e la necessità di collaborare anche con l’islam. Il caso della Siria e dei vescovi siriani. L’occidente troppo impacciato; Obama squalificato. Un bilancio di quanto successo quest’anno nel mondo arabo.

Beirut - Tutto è iniziato un anno fa: il ragazzo tunisino Mohammed Buazizi, prostrato dalla miseria e dalle umiliazioni subite dalla polizia, si è dato alle fiamme il 15 dicembre dello scorso anno. Come un incendio sull’erba secca, dal suo sacrificio la rivolta si è diffusa da un Paese all’altro. Ciò è avvenuto perché tutto il mondo arabo è in grande difficoltà e bisogno. La gente sentiva dolore e desiderio di cambiamento, ma mancava la scintilla per far scoppiare l’incendio.

La rivoluzione araba non è stata uguale in tutti i Paesi. Alcuni erano più preparati: in Tunisia, la popolazione è più forte e più matura; avevano anche un regime che permetteva la protesta. Là dove il regime è totalmente dittatoriale, come in Libia, è stato necessario l’intervento dall’esterno. Il caso della Siria, poi è ancora più complesso e non so se si risolverà.

Alcuni Paesi sono rimasti illesi, forse perché la situazione non è così tragica come in altre parti, come in Giordania, o perché il popolo è totalmente ignorante. Penso all’Arabia saudita, dove il popolo sta bene, ha il petrolio, ma non sa neppure cosa siano i diritti umani, la libertà, l’uguaglianza.

I bisogni del mondo arabo

In ogni caso, con quest’anno, tutto il mondo arabo è rimasto scosso perché segnato dal bisogno. E qual è questo bisogno? Il primo e più fondamentale è la povertà, la miseria di una parte della popolazione. Questi non avrebbero potuto fare alcuna rivoluzione: stanno troppo male e non avevano nemmeno la possibilità di pensarvi. Altri lo hanno fatto e loro si sono aggiunti, come è avvenuto in Egitto, dove il 40% della popolazione vive al di sotto del livello di povertà.
Anche in Tunisia, il giovane che si è auto-immolato era disperato per la povertà e la disoccupazione.

Il secondo motivo è la scoraggiante disoccupazione giovanile. Nella nostra cultura, se uno non riesce a partire nella vita, a iniziare la sua vita di adulto, si sente umiliato; se uno non ha lavoro, non può farsi una famiglia. In Europa non è drammatico se uno a 30 anni non si è fatto una famiglia. Nei nostri Paesi, invece, si comincia a pensare a sposarsi a 20 anni; a 25 è tempo di concludere. Ma se uno non ha lavoro, è impossibile. Nei nostri Paesi, sposandosi, l’uomo deve essere capace di pagare la casa; la donna deve portare l’arredamento. Ma se uno è disoccupato, dovrà aspettare a sposarsi, con un’ulteriore umiliazione.

Il terzo motivo è etico: la dignità, la libertà di poter esprimere le proprie opinioni, la diseguaglianza. Questo bisogno è acuto anzitutto fra gli intellettuali, ma anche nella classe media. A questi, vanno aggiunte le discriminazioni non necessariamente religiose…

Infine, la gente, attraverso la televisione, vede come vive il resto del mondo e si sente arretrata, si domanda come mai siamo così arretrati. Poi sentono dire che il presidente, il ministro, altri sono miliardari: tutto questo crea un sentimento di ingiustizia, o si soffre l’ingiustizia sulla propria pelle.
Tutti questi motivi hanno creato quel sentimento di insoddisfazione che ha portato alla rivolta.

La vittoria degli islamisti

Il movimento è stato spontaneo e popolare. Ciò però significa che non vi era una vera leadership e oggi ne vediamo le conseguenze: quelli che hanno fatto la rivoluzione non hanno vinto. Hanno permesso ad altri, più organizzati, di raccogliere il frutto del loro lavoro.
È uno scacco enorme, tanto che molti dicono che “non valeva la pena”. Ma io rimango fiducioso: questo passo era necessario perché mostra agli islamisti che anche se hanno vinto, vi è un forte richiamo a priorità diverse dalle loro. Il movente della rivoluzione dei giovani non è stata la religione, ma la dignità, il lavoro, la libertà, l’uguaglianza, la democrazia.

È vero: ora gli islamisti hanno il potere. Ma in tal modo essi hanno l’occasione di verificare i loro slogan che dicono di continuo che “l’Islam è la soluzione” per ogni cosa. E’ il loro slogan: Al-Islâm huwa l-hall ! Dovranno dimostrare che il sistema islamico risolve il problema della disoccupazione, dell’educazione, dell’uguaglianza, della democrazia, delle finanze, etc.

É la prima volta in Medio Oriente – dai tempi del potere ottomano – che essi hanno il potere politico in mano. È perciò un momento importante per vedere in quali settori gli islamisti danno risposte concrete, in quali fanno difetto.

È anche un momento importante per verificare che tipo di sharia essi vogliono attuare: quella del’Arabia Saudita – dove settimane fa hanno decapitato una donna accusata di stregoneria – o quella dell’Iran, che blocca lo sviluppo di tutto il Paese; o inventarne altri tipi. Noi li giudicheremo sui risultati.

Rimane però un fatto sicuro: gli islamisti, e in particolare i salafiti, hanno approfittato della “primavera araba” per cercare di imporre la loro concezione dell’islam. Questo è notevole in Tunisia (come lo dimostra il fenomeno della Manouba, la più famosa università tunisina, dove i salafiti cercano d’imporre il “niqâb” e d’introdurre una moschea dentro l’università) e in Egitto (come dimostrano gli attacchi numerosi alle chiese, per distruggere le croci, o gli attacchi dell’esercito alle donne, che ha suscitato la manifestazione del 20 dicembre scorso).

Educare alla democrazia

Penso all’Egitto, e a questa impressionante vittoria dell’islamismo: il 60%, tra “Fratelli Musulmani” e salafiti! Vedremo se davvero meritavano tutta questa fiducia dell’elettorato. D’altra parte era inevitabile: sono quasi sessant’anni che l’Egitto vive sotto un regime militare e nella mancanza di democrazia. La gente ha perso la memoria di cosa essa sia. Ma il fatto che quasi il 50% degli elettori abbia partecipato al voto, è un elemento molto positivo. In passato la partecipazione era del 5-7%: la gente non andava a votare perché sapeva che tanto i risultati sarebbero stati truccati. Sotto Nasser si proclamavano sempre vittorie del 95%, pur andando a votare solo il 5% della popolazione.

In Tunisia a queste votazioni ha partecipato almeno l’80%: un caso unico. Ciò significa che l’interesse politico e la partecipazione sono cresciuti.

Da parte dei giovani, è tempo però di pensare come organizzare il movimento. La gente e il mondo hanno preso molto sul serio la rivoluzione araba. Ma occorre pianificare e unire, altrimenti tutto si perde. In Egitto, ad esempio, a differenza della Tunisia, i giovani hanno creato decine di partiti. Ma questo ha sbriciolato i risultati e così i giovani hanno perso tutto il vantaggio che avevano.
Il partito chiamato “il blocco egiziano”, lanciato dal miliardario copto Naguib Sawiris, molto liberale, aperto a cristiani e musulmani, ha raggiunto il 17%. Non è molto, ma già è qualcosa.

Soprattutto ciò mostra che vi sono speranze per il futuro: il movimento deve creare una sensibilità politica nel Paese. Uno dei punti essenziali su cui fare forza, oltre all’economia che è in sfacelo, è proprio l’educazione. L’Egitto in particolare è molto indietro rispetto ad altri Paesi arabi. Esiste 40% di analfabetismo (in particolare tra le donne) e la qualità dell’insegnamento è scarsa. Per questo si vota più per appartenenza religiosa che per analisi politica.

Anche la solidarietà fra cristiani e musulmani, nonostante gli attacchi avvenuti contro le chiese, ha fatto nascere una sensibilità e un movimento per l’uguaglianza, prima quasi impensabile.
Il frutto è positivo, anche se in confronto alla fatica compiuta, tale frutto è stato minimo.

La situazione in Siria

Il caso più chiaro di presa di coscienza è avvenuto in Siria, dove il regime di Assad sembrava molto stabile. È anche un caso molto drammatico e difficile. Va detto che le informazioni su quel Paese sono molto oscure. Proprio in questi giorni il vescovo di Aleppo mi diceva di fare attenzione perché le informazioni che si hanno fuori della Siria, sono diverse da quelle che si ha all’interno.

Anche qui si notano alcuni fatti nuovi: per la prima volta, la Lega araba ha preso una posizione netta: esclusione di Damasco, sanzioni, ecc… Certo ci troviamo di fronte a un’ambiguità: la Siria sostiene l’Iran; l’Iran e fortemente sciita; la Lega araba è per la quasi totalità sunnita. Può essere che le minacce della Lega araba siano motivate da più da questa opposizione, che per amore alla rivoluzione.

In ogni caso – e dura già da nove mesi - in Siria la gente è pronta a dare la vita per cambiare la situazione, e questo è un fatto davvero nuovo.

La Siria ha problemi specifici: vi è un potere totalitario e un popolo in maggioranza disarmato. Si dice però che i Paesi arabi limitrofi stanno finanziando la ribellione. Per trovare una soluzione occorre un mediatore o siriano o arabo, altrimenti sarà la distruzione.

Vediamo anche che per la prima volta la Turchia ha preso la difesa dei ribelli siriani. Forse vi sono motivi egemonici in tutto questo, o alleanze da rispettare con l’Occidente. Ma vi è soprattutto l’idea che la Turchia vuole mostrarsi come un modello di Paese islamico moderato, anche se non è la perfezione nei diritti umani.

La situazione in altri Paesi

In Libia il futuro è ancora molto incerto. Vi sono affermazioni di tipo islamista, ma il problema che io vedo è soprattutto come fare per riconciliare tutte le tribù e indirizzarle verso lo sviluppo. Nel Paese l’industria è all’inizio, e non si sa se riusciranno a far progredire il livello del Paese.

In Arabia saudita non vi è stata primavera araba (o meglio: è stata soffocata sul nascere con i militari). Ma la gente chiede alcuni cambiamenti.

In Paesi come Yemen e Bahrain la rivoluzione ha già dato dei frutti consistenti: né l’uno, né l’altro potranno continuare come prima.

Vi è movimento anche il Marocco: non vi è stata la rivoluzione, ma il timore che venisse ha suscitato nuove riforme sociali. Già da tempo avevano fatto una riforma legale dei diritti della famiglia (la Mudawwanah), che valorizzavano i diritti della donna… Insomma, il mondo arabo sta cercando ovunque la sua strada.

Come si muovono i cristiani?

In genere i cristiani hanno paura perché è quasi sicuro che questa rivoluzione sarà incamerata dagli islamisti. Noi temiamo soprattutto gli islamisti, in particolare i salafiti. In effetti questo pericolo c’è, ma io dico che non vi è altra possibilità e dobbiamo collaborare con tutti per far emergere il meglio dalla situazione. Non bisogna chiudersi nella paura. Certo con gli islamisti salafiti è difficile, ma vi sono anche islamisti che hanno un progetto politico, un desiderio di voler superare l’arretratezza del loro Paese. Noi possiamo vigilare per mostrare loro dove stanno superando i limiti, dove stanno conculcando dei diritti, ecc..

C’è un dialogo possibile ed utile sui progetti sociali: è tempo di aiutarci e sostenerci a vicenda, d‘imparare la solidarietà anche verso chi non è cristiano. E viceversa. É tempo di creare insieme dei progetti sociali contro l’analfabetismo, la povertà, la malattia, ecc. In campo educativo e ospedaliero i cristiani hanno mostrato già da tempo tutta la loro generosità e professionalità verso chiunque, cristiani e musulmani. Perciò io penso che sia possibile collaborare con una gran parte della popolazione.

Allo stesso tempo dobbiamo difendere la giustizia, la libertà di coscienza, la libertà di vivere la nostra fede, di proclamarla, arrivando al principio dell’uguaglianza. I musulmani in Egitto, anche in campo giuridico, usano l’espressione “la religione migliore”, e intendono “l’islam”. Dobbiamo dire: Questa espressione è inaccettabile.

Esistono anche altre discriminazioni (uomo/donna; ricchi/poveri). Noi dobbiamo lavorare contro tutte queste discriminazioni, perché sono opposte allo spirito del Vangelo.

Personalmente, non temo tanto un regime islamico, ma la possibilità dell’intolleranza. E’ anche vero che molti musulmani sono opposti alla linea dei salafiti, che cercano d’imporre (e soprattutto alle donne) la loro visione intollerante dell’islam. In ogni caso, come cristiani, non possiamo rinchiuderci in un ghetto, ma dobbiamo cercare di collaborare con tutti quello che lottano per una società rispettosa dei diritti umani.

La primavera araba vista dai cristiani

A causa della paura del futuro, i cristiani preferiscono il regime che conoscono già. Ma questi regimi sono spesso dittatoriali. E sostenere un regime dittatoriale è un peccato. Se il governo fa violenza, dobbiamo dire che siamo contro la violenza di chiunque: degli oppositori, della gente, dei militari. Dobbiamo dire che siamo per la libertà, ma non per l’eccesso di libertà che porta allo sfacelo dell’occidente; dobbiamo dire che siamo per l’uguaglianza, per la giustizia, sia per i cristiani che per i musulmani, sia per gli uomini che per le donne. Questa è l’occasione per i cristiani di fare un’evangelizzazione culturale, lontana da ogni proselitismo.
Invece purtroppo, la paura dell’islamismo spinge i cristiani a legarsi al passato. La maggioranza pensa che basta non immischiarsi troppo nella politica e si può vivere tranquilli, Ma come cristiano, è mio diritto-dovere anche interessarmi della politica.
Ciò spiega la posizione dei vescovi in Siria, che preferiscono scegliere per quello che conoscono già, piuttosto che per un futuro sconosciuto. La scelta non è fra il bene e il male, ma fra due mali ... e valutare qual è il male minore è difficile. Ma la strada consiste ad affermare ciò che per noi è importante.

Infine, l’Occidente

L’Occidente ha appoggiato i dittatori; poi se n’è distaccato; adesso è titubante. L’occidente è molto criticato nei Paesi arabi perché essi appoggiano fino in fondo Paesi come l’Arabia saudita, che per dottrina lì presente, è la fonte indiretta del terrorismo islamico. Un Paese come gli Stati Uniti, che parla della libertà e dei diritti umani, quando si incontra con i sauditi, tace su tutti questi aspetti.

Sulla Libia, tutti gli arabi pensano che l’occidente era più interessato al petrolio libico che alla libertà. E infatti si sono impegnati solo contro la Libia (e in passato contro l’Irak di Saddam Hussein). Con la Siria, invece, tutti sono cauti perché essa ha un ruolo geopolitico importante…

L’atteggiamento occidentale non è unificato, e non è basato su principi e valori chiari.
Non sono un idealista e per questo penso che ogni Paese tenda a vedere anzitutto i propri interessi. Ma trattandosi di un fenomeno come quello di tutto il mondo arabo, sarebbe stato molto più efficace lanciare un’idea di come sostenere (o non sostenere) questi movimenti.

La politica verso Israele – che è una delle cause essenziali della crisi medio-orientale – è un'altra questione che lascia sbigottiti gli arabi. In un solo giorno Barack Obama ha cambiato idea in modo totale: dopo aver sostenuto l’idea di due popoli, due Stati, alla visita di Netanyahu ha cambiato posizione.

Non parliamo poi del suo discorso al Cairo, dove aveva conquistato tutto il mondo arabo. Ma è passato qualche mese e si è visto che la sua politica era la stessa di Bush. Ha perso ormai ogni credibilità. Occorre un impegno con i principi, e così si può essere modello per gli altri.

Lo stesso vale per l’Europa. Essa sta perdendo la sua identità religiosa e culturale. Non ha la capacità di verificare il suo passato coloniale, nascondendolo dentro una cattiva coscienza, invece di mostrare che anche il colonialismo ha avuto un valore nel dialogo con le culture.

In Europa si rifiuta la religione locale (in generale quella cristiana) e questo rende ambiguo il rapporto degli europei con le altre religioni nel mondo. In più, talvolta i governi sembrano preferire le religioni importate, mentre si soffoca quella locale. Se ad esempio la Francia nega la sua identità storica cattolica, non saprà più come trattare con le altre religioni. Di fatto vediamo una schizofrenia che va dalla secolarizzazione delle feste cristiane, alla valorizzazione delle altre religioni (meno il cristianesimo).

La rivoluzione araba forse può servire a far rinsavire anche molti giovani in occidente. In Egitto, in Siria, vi son persone che rischiano la vita per un ideale, per una vita dignitosa, per tutto il popolo. Ma quanti in Italia o in Europa sarebbero capaci di pensare a questo?





Il Marocco o della cappa dell'estremismo sulla primavera araba
di Souad Sbai su l'Occidentale



Sulla linea che congiunge Damasco a Rabat, si giocano i destini della geopolitica economica, sociale e storica di un’intera epoca. Gas, commercio e intrecci internazionali si fondono con la reislamizzazione forzata del quadrante, sulla scia delle primavere arabe, ora intente a svelare il loro vero volto. Un volto che a prima vista appare improntato solo alla realizzazione di quel califfato universale, la cui guida suprema venne proposta anche a Muammar Gheddafi sul finire degli anni Ottanta e che egli rifiutò senza indugio, segnando da l’inizio di quel percorso che ne decreterà, proprio per mano estremista, la fine cruenta e sanguinosa. Ma la maschera dell’islamismo non può e non deve ingannare. 

L’estremismo, stante la sua volontà ferrea di sottomissione dei popoli all’islam radicale, ha un obiettivo vero e concreto che si chiama potere geo-economico. Attenzione al gioco delle sponde. A Damasco risiede il cuore delle trame economiche, finanziarie, belliche e politiche del Caucaso intero; infrastrutture e realtà commerciali sul gas fanno capo non solo ad Assad ma anche e soprattutto agli amici russo e cinese e da lì partono gli input sullo sviluppo o meno di alcune zone, fra cui l’Europa stessa.
Tranciando di netto il legame che unisce a doppio filo la Siria e i colossi amici, l’effetto a catena su tutto il sistema economico dell’Europa orientale sarebbe enorme e senza ritorno, se non con un nuovo piano Marshall dai connotati che possiamo ben immaginare. Visto che prima di ogni Piano Marshall c’è sempre una guerra d’urto che ne giustifichi l’applicazione. Con il crollo di questo gioco di specchi la Russia diverrebbe più esposta all’attacco delle forze estremiste cecene, che sfruttano la voglia di indipendenza per esportare jihad globale. Se sommiamo tutto questo con la debolezza, malcelata ma evidente, di Putin e Medvedev, abbiamo la prima sponda. Bombardata da immagini sulla cui fondatezza e concretezza ci sarebbe assai da discutere, soprattutto se ricordiamo l’inganno mediatico che ha rivolto tutto il mondo contro Gheddafi per massacri mai esistiti. Camminando a ritroso lungo la linea del mare Mediterraneo e incontrando nell’ordine Israele, Giordania, Egitto, Libia, Tunisia e Algeria, ci avviciniamo a quella che l’estremismo vorrebbe porre come seconda bandiera a chiudere  il recinto.

Il Marocco, paese in corsa per il futuro, a livello economico, politico, strutturale e sociale, con il Dostur di Mohammed VI (riforma costituzionale) a fare da apripista assieme alla riforma della Moudawana (diritto di famiglia) per un Marocco all’altezza delle sfide della globalizzazione. Il Paese dialoga serenamente con tutta Europa e con l’Inghilterra, stabilendo di volta in volta accordi commerciali e finanziari assai vantaggiosi per i contraenti, soprattutto in relazione alla posizione straordinariamente esposta sulle rotte commerciali che il Marocco può vantare. Ma le elezioni paiono scombinare tutto, con la vittoria, seppure a base elettorale quasi zero del partito islamista Pjd, capeggiato da Abdelilah Benkirane, che diviene poi primo ministro. Ma è la composizione del suo esecutivo a rendere le cose più difficili. O forse più facili, questo dipende dai punti di vista.

Dopo quasi due mesi dalle elezioni, nascono trenta ministeri, di cui una sola donna. Beffa delle beffe, velata e incaricata di gestire il dicastero che si occupa di famiglia. Proprio lei che è l’anti donna per eccellenza, che si è battuta per la chiusura del festival di Marrakech e che non sopporta strappi al suo islamismo ottuso e oscurantista, così tenacemente infastidito dalle attiviste marocchine per i diritti delle donne. Che sa bene ora contro di lei inizieranno una battaglia senza quartiere. Perché non si è dimessa. Perché ha offeso le donne marocchine. Perché quel suo stare all’angolo nella foto di gruppo umilia non lei, che ci è probabilmente abituata, ma tutte le donne che nell’angolo delle proprie case ci mettono i cappotti e non i diritti. Ecco la seconda sponda, pronta ad essere anch’essa chiusa ai rapporti con l’esterno e con l’Europa, che da essa tanto traeva in termini di turismo e di commercio, portandone in cambio risorse e programmi di sviluppo. Estremismo radicale e scalata al potere economico europeo, una linea retta che arriva fino all’indebolimento parziale e poi totale di un continente già provato da una crisi che sta macellando le speranze di crescita. Tutto sulla via della conquista, nè armata né cruenta, delle menti di chi oggi non capisce ma domani saprà bene cosa vuol dire il governo dell’estremismo.






Solo l’1% degli ortodossi in Russia partecipa attivamente alla vita parrocchiale
di Nina Achmatova sAsiaNews



Un sondaggio rivela che sul 15% dei credenti praticanti solo l’1% si dice realmente attivo. Costruire comunità vivaci è una delle principali sfide per il Patriarcato.


Mosca – Nonostante la cosiddetta rinascita spirituale, in Russia solo l’1% dei credenti si definisce impegnato “attivamente” nella vita delle parrocchie. A rivelarlo è un sondaggio dell’istituto demoscopico Sreda. Il tema è di grande importanza per il Patriarcato di Mosca. Il patriarca Kirill ha detto di recente che proprio l’organizzazione di comunità vivaci e attive sul territorio è uno dei principali obiettivi da raggiungere nel  prossimo futuro.

Secondo la ricerca, il 15% dei russi che si definiscono ortodossi frequenta la parrocchia, ma di questi solo l’1% è impegnato in modo attivo. Chi vorrebbe partecipare di più alle attività parrocchiali, stando alla ricerca di Sreda, sono le donne, gli abitanti del distretto federale centrale e della zona di Mosca, gli impiegati pubblici e i cittadini tra i 55 e 64 anni.

Il 76% degli intervistati che si è dichiarato ortodosso ha detto di non essere coinvolto nella vita della comunità. Gli ultra 65enni, i residenti delle grandi città ad eccezione di Mosca, i genitori di figli unici e chi ha problemi di salute sono le categorie che si sono dette completamente disinteressate a partecipare alla vita parrocchiale.

Il sondaggio è stato condotto in 100 città e villaggi di 44 regioni e ha coinvolto 1.500 persone.