giovedì 4 ottobre 2012

Un ecumenismo contro l'unità e l'unicità della Chiesa? Il caso di Don Alfredo Jacopozzi su "Toscana Oggi"




P. Serafino M. Lanzetta scrive al Direttore di "Toscana Oggi", settimanale cattolico toscano  d'informazione, in seguito a un duplice intervento del Prof. Don Alfredo Jacopozzi, docente alla Facoltà teologica dell'Italia Centrale e direttore dell'ufficio culturale della Diocesi di Firenze, sull'ecumenismo. 


Caro Direttore,
leggendo la risposta di Don Alfredo Jacopozzi (pubblicata su Toscana Oggi del 3 giugno 2012, p. 19) ad un lettore che si chiedeva perché i cristiani sono divisi e non sono riuniti in un’unica Chiesa, non si può che restare esterrefatti. Muovendo dalle modalità del nuovo dialogo, che sarebbe iniziato grazie al Concilio Vaticano II, sembra che si metta in discussione lo stesso mistero della Chiesa, una santa cattolica e apostolica, come professata nel Simbolo della fede. Desideravo manifestare tempo fa il mio disappunto, ma poi ho lasciato cadere la cosa, quando, confortato da una lettera del Sig. M. P. Rocchi, anch’egli perplesso in detta materia, mi son deciso. Leggendo poi la nuova risposta di Don Jacopozzi (pubblicata con la lettera su Toscana Oggi del 16 settembre 2012, p. 11), allora credo che sia opportuno intervenire pubblicamente nel dibattito.
Non discuto sulle intenzioni del teologo e sul suo desiderio di unità, così importante. In ciò che segue mi limito a segnalare ciò che, a mio avviso, è oggettivamente contrario alla fede della Chiesa cattolica. Rimangono comunque inalterati il rispetto e l’amicizia sacerdotali.
Don Jacopozzi, nel suo primo intervento, è molto entusiasta della “grande novità del concilio”, che si sarebbe liberato di un’apologetica tendente a sottolineare il connubio di unità e verità per fare spazio a una nuova carità, quella appunto della ricerca di nuove strade di dialogo. La novità, a suo modo di vedere, è l’inveramento del “principio istituzionale” con il nuovo “principio vitale”, così da spostare il problema dell’unità dalla Chiesa a Cristo. Questo gli concede di inferire la seguente conclusione: “Nessuna…delle chiese e delle comunità cristiane può sentirsi privilegiata nei confronti del Cristo, ritenere di occupare il posto migliore al suo fianco e di essere l’unica autentica Chiesa di Cristo sulla terra”.
Così, per Don Jacopozzi, la nuova unità dei cristiani, la nuova verità, “non può essere trovata nel consenso dottrinale, che è un consenso astratto di fronte alla verità della rivelazione”, ma “nella persona di Gesù Cristo”. Si darebbe un passaggio dal “diritto della verità” al “diritto dell’uomo”, e questo favorirebbe finalmente il pellegrinaggio di tutti “verso l’unità della verità a prescindere dalla chiesa di appartenenza”.
Dicevo esterrefatti, e aggiungerei pure disorientati, perché questo argomentare prescinde dal fatto che la Chiesa è un’istituzione di Cristo sui Dodici, ratificata nel sacrificio del Calvario, e manifestata nella sua unità e cattolicità a tutte le genti il giorno di Pentecoste. Per Don Jacopozzi questo approccio risentirebbe di fissismo veritativo. Il vero impedimento all’unità risulterebbe dunque la stessa Chiesa costituita da Cristo. Questo, ci chiediamo, è l’insegnamento del Concilio Vaticano II? Dove si dice che l’ecumenismo è il pellegrinaggio verso Cristo passando a lato della Chiesa-una? Forse don Jacopozzi legge Unitatis redintegratio (UR, che significa ristabilimento dell’unità dei cristiani nell’unica Chiesa e non della Chiesa) contro Lumen gentium (LG), rischiando oltretutto di mettere in discussione l’intero impianto rivelato circa il mistero della Chiesa come trasmesso ininterrottamente dal Magistero? Non è questo un esempio di ermeneutica della rottura applicata al concilio? Il pensiero di Don Jacopozzi sul Concilio Vaticano II è sintetizzato in un suo intervento sulla rivista “Testimonianze” (n. 463), fondata da don Ernesto Balducci: le ambivalenze del Concilio, sul piano dottrinale e pastorale, sono state largamente monopolizzate dal Magistero post-conciliare, eludendo l’aspettativa di molti di eliminare vecchi rimasugli nel modo di pensare. Si è verificata una “restaurazione” a danno del Vaticano II, accanto però a punti di non ritorno come la liturgia del popolo sacerdotale, una Chiesa non più giuridicizzata e trionfalistica, stima per le altre religioni e della dignità umana.
Ritornando al problema ecumenico, don Jacopozzi assume come principio-guida nella sua risposta non la Chiesa, il mistero, ma la divisione contingente e storica dei cristiani. È una teoria che diversi anni fa riscuoteva un qualche successo, declinata talvolta come “diversità riunificata”, ma che ora comincia anch’essa a tramontare, perché alcune diversità si manifestano sempre più come distanze irriducibili. Un solo esempio: come accordare i principi non negoziabili della legge morale naturale con la loro esplicita negazione in alcune denominazioni protestanti?
Nel secondo intervento, Don Jacopozzi ribatte al Sig. Rocchi confermando la sua visione conciliare: il Vaticano II sarebbe passato da una prospettiva ecclesiocentrica a una cristocentrica. Resta però il fatto che l’ecumenismo è un problema ecclesiologico e non cristologico: UR dipende da LG (cf. UR 1/c). Di più, Dominus Iesus (DJ) dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’unicità salvifica di Cristo e della Chiesa, avrebbe fatto cadere una serie di affermazione di UR, tra cui ciò che si direbbe al n. 3: cioè “che le confessioni cristiane sono in se stesse vie di salvezza, quasi alla pari della Chiesa cattolica”. Al n. 3 di UR – del resto citato in precedenza da Don Jacopozzi –, si dice invece che lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi delle Chiese non cattoliche e delle altre Comunità cristiane “come di strumenti di salvezza” (“tamquam salutis mediis”). L’interpretazione data va molto al di là del testo conciliare. Lo Spirito Santo non ricusa di servirsi di tante altre realtà per la salvezza e non solo delle Chiese o Comunità separate. Basti ricordare che anche la coscienza retta di un non cristiano può essere strumento di salvezza nel battesimo di desiderio. No invece le altre religioni in quanto tali. Questo in ragione del fatto che Dio non è vincolato nel suo agire ai sacramenti. Ma giustificare una completezza ecclesiologica delle altre confessioni cristiane con la straordinarietà della salvezza è teologicamente sbagliato. UR infatti subito dopo (cf. il n. 3/e) afferma che “solo per mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è il mezzo generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza”. Nella Chiesa cattolica c’è la garanzia, la pienezza, fuori di essa certamente non c’è un vuoto ecclesiale ma solo la possibilità di salvezza. Tra esse e posse c’è una grande distanza. Il discorso comunque deve rimanere nell’alveo ecclesiologico (quello soteriologico è distinto).
A giudizio di Don Jacopozzi, che cita L. Sartori, il discorso sulla “pienezza” salvifica sarebbe quantistico. La Chiesa cattolica avrebbe un di più (matematico) rispetto a chi ha invece meno. Dal momento che questo discorso presenta notevoli ambiguità cadrebbe da solo e lascerebbe quindi spazio alla molteplicità, che necessariamente però diventa incontrollabile. È questa che invece cade. Il battesimo, ad esempio, implica l’eucaristia e tende verso di essa, ovvero “tende interamente all'acquisto della pienezza della vita in Cristo” (UR 22), i sacramenti non hanno ragion d’essere senza la Chiesa, essendo questa il sacramento universale (cf. LG 1 e 48). Quale sarà, perciò, nella teologia ipotizzata da Don Jacopozzi, la misura degli stessi elementi ecclesiali sparsi qua e là nelle altre confessioni? Non basta ritornare al solo Cristo. Tuttavia, non si tratta di un discorso matematico delle quantità: pienezza è una questione di essenza, appartiene alla Rivelazione di Dio. Essere nella verità più che avere la verità. Questo implica la fede: credere Ecclesiae, Ecclesiam, e in Ecclesia.
Ancora, il verbo subsistit accompagnato dall’in utilizzato da LG 8 e ripreso da DJ 16 non è una “formula compromissoria che il Concilio adottò per armonizzare due affermazioni dottrinali diverse”: l’unicità e l’unità della Chiesa di Cristo e la presenza di elementi ecclesificanti presenti fuori dei suoi confini visibili. Ciò per il fatto che le due affermazioni dottrinali non sono “diverse”. Nello schema originario sulla Chiesa (De Ecclesia), sebbene fosse presente il verbo est invece del subsistit in, per coordinare Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, si diceva comunque che c’è un’unica Chiesa di Cristo e una pluralità di elementi presenti in altre Chiese o Comunità cristiane. Questi elementi appartengono alla Chiesa di Cristo e perciò spingono verso l’unità cattolica (cf. LG 8). Si trovano ora frammentati a causa della divisione, che non dovrebbe esserci.
Il discorso ecumenico non può essere trasferito, ancora una volta, come fa Don Jacopozzi, al mistero di Cristo e pensare all’unità dei cristiani – meta-ecclesiale o in una super-Chiesa? – più che al ricomporre le fratture nel mistero dell’unica Chiesa. Non c’è un soffio dello Spirito Santo contro o accanto alla volontà di Cristo.
Resta perciò una domanda per tutti noi, quella decisiva: la Chiesa, così come data storicamente, è una costruzione di uomini o è voluta da Cristo? Se rispondiamo che essa viene da Cristo, allora abbiamo anche la giusta risposta al perché siamo divisi, senza dover abbandonare il patrimonio della Rivelazione: la divisione dei cristiani è frutto del peccato da ricomporre con la conversione nostra e altrui, ma la Chiesa non può che essere sempre una. Sarebbe mai possibile un Cristo senza la Chiesa? Verso quale Cristo andremmo se la sua Chiesa non fosse più riconoscibile nelle traversie della nostra povera storia umana? Del resto, anche il semplice spostarsi su Cristo, rinviando in Lui l’unità intesa come pellegrinaggio storico, non risolve il problema. Ci ritroviamo nuovamente a fare i conti con un dato essenziale, rammentatoci da S. Paolo: «Cristo è stato forse diviso?» (1Cor 1,13). Prima la Chiesa indivisa, prima Dio, e poi il problema storico delle fratture tra i credenti, da sanare nella carità della verità. Consiglierei, pertanto, di modificare il titolo all’ultimo intervento di Don Jacopozzi: non si può porre in questione, sebbene in modo giornalistico, l’unicità della Chiesa: è un dato di fede, che precede la nostra comprensione.


p. Serafino M. Lanzetta, FI



PS: Don A. Jacopozzi risponde al mio scritto (su "Toscana Oggi" di domenica 7.10.2012, p. 16, dove è pubblicata anche la mia lettera al Direttore, in forma più breve della presente). Ciò che è interessante notare è che non c’è nella risposta una sola controbattuta alle mie obiezioni, ma si insiste su ciò che veramente conta: postulare uno sviluppo teologico, dopo il Concilio Vaticano II, che partendo dall’ecclesiologia di comunione offra la chiave adeguata, cito, «per comprendere sia ciò che già ci unisce in Cristo; sia lo statuto che all’interno di questa comunione, reale sebbene imperfetta, hanno la Chiesa cattolica e le altre Chiese e Comunità ecclesiali; sia le prospettive da intraprendere per giungere alla piena unità» (p. 16). Ancora una volta Don Jacopozzi colloca la Chiesa cattolica accanto alle altre Chiese e Comunità, al fine di creare o raggiungere una comunione ecumenica. Di nuovo si è smarrita la Chiesa di Cristo. Questo però, lo ribadisco, non è la dottrina della fede cattolica, che invece insegna che la Chiesa è una ed unica, mentre sono i cristiani ad esser divisi. Il Concilio qui serve come trampolino per le “nuove” teologie, che però evidentemente superano o semplicemente trascurano il dettato conciliare, per ritrovare, in un certo “spirito del Concilio”, la nuova unità. Questa non è la volontà di Cristo, né dell’ecumenismo cattolico.