sabato 19 novembre 2011
Convegno: Il Concilio alla luce della Tradizione della Chiesa
giovedì 17 novembre 2011
Il Papa domani va in Benin: la nostra amata missione africana
Il Papa parte domani mattina per il Benin, per il suo 22.mo viaggio apostolico internazionale. Ieri, durante l'udienza generale, Benedetto XVI ha chiesto ai fedeli di accompagnarlo con la preghiera. Il Benin è un Paese dell’Africa Occidentale di circa 7 milioni di abitanti che in maggioranza seguono le religioni tradizionali; cospicua anche la presenza di cattolici e musulmani. Benedetto XVI nell’occasione consegnerà l’Esortazione apostolica che raccoglie quanto emerso nel secondo Sinodo per l’Africa. La visita del Papa giunge nel ventesimo anniversario dell’arrivo in Benin dei Francescani dell’Immacolata. Ad Allada, nel Sud del Paese, hanno dato origine al Centro Mariano dell’arcidiocesi di Cotonou, con la realizzazione di un santuario mariano dedicato alla “Madre della Divina Misericordia”, e creato il network radiofonico “Radio Immaculée Conception”. Nel Nord del Benin, a Bembereké, oltre alla casa di formazione, l’istituto sta anche avviando un’importante opera sociale di aiuto agli studenti più poveri. Il nostro inviato in Benin, Massimiliano Menichetti, ha intervistato padre Michele Maria Iorio, rettore del Santuario di Allada:
R. – Il Papa, venendo, parlerà in un linguaggio basato sui valori fondamentali, i diritti fondamentali, i temi che interessano tutti, specialmente lì dove si vive la sofferenza, la povertà, dove mancano tante cose. Senz’altro sarà un rilancio dei valori umani da vivere e da incarnare sempre più e sempre meglio, e sarà un rilancio, una spinta forte di evangelizzazione, una conferma nella fede, proprio come Gesù disse a San Pietro: “Confermali nella fede”. Quindi, è una grazia – veramente – per tutta l’Africa e in particolare per il Benin e anche per noi Francescani dell’Immacolata che celebriamo 20 anni della nostra presenza.
D. – Che cosa è cambiato in questi 20 anni?
R. – Il Benin è un Paese abbastanza povero; come molti Paesi dell’Africa, ma è un Paese che si sta sviluppando anche se lentamente per quanto riguarda le strade, le scuole, gli ospedali, internet … Direi, forse, che ha bisogno di svilupparsi nel modo giusto. Il Papa può aiutare proprio su questo versante del giusto sviluppo, nella coniugazione tra fede e ragione piuttosto che sotto l’influenza di altri operatori a livello mondiale.
D. – Quali sono, secondo la sua esperienza, i problemi più grandi che ha il Paese e come si possono risolvere?
R. – Il popolo, per esempio: il popolo povero paga la scuola, paga gli ospedali, le medicine quando sappiamo che non possono permetterselo. Quindi, da una parte si incoraggia ad andare a scuola, ma dall’altra parte non si dà nessun aiuto in concreto. Gli orfani sono tanti: chi li cura? E’ la Chiesa cattolica che spesso realizza queste opere. Quindi, noi ci auguriamo che veramente questa venuta del Papa possa essere come un campanello d’allarme, uno stimolo forte anche per lo Stato e per i suoi governanti, affinché si mettano concretamente a servizio del popolo favorendolo nelle primarie necessità. Confidiamo e accompagniamo ogni cosa con la preghiera perché, come ben sappiamo, la preghiera è come l’acqua e fa germogliare ogni seme. Il Papa viene a seminare, poi bisognerà innaffiare con la preghiera.
D. – I Francescani dell’Immacolata hanno realizzato e dedicato un Santuario alla Madre della Divina Misericordia. Che significato ha questa realtà nel Benin?
R. – In Benin, la Chiesa cattolica si divide in dieci diocesi sparse su tutto il territorio: il Benin è un terzo dell’Italia, più o meno. Quasi ogni diocesi ha un suo Santuario, in genere un Santuario mariano, che è anche come un centro di unità, per così dire. E poi, per tutto il Benin c’è un Santuario nazionale che si pone anche fisicamente, proprio, al centro del Paese. Il Paese è stato consacrato alla Vergine Maria in più occasioni, e quindi si avverte molto la presenza della Madonna: tramite Maria per arrivare alla pienezza della Verità, ossia a Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato.
D. – Come sono i rapporti con le altre realtà religiose del Paese?
R. – Si vive gomito a gomito con le altre religioni; c’è la realtà dei musulmani e poi la religione tradizionale. C’è convivenza pacifica. Questa unità è un’unità anche per tutto il popolo beninese. La statua di Nostra Signora della Divina Misericordia, collocata e venerata nel nostro Santuario, rappresenta la Madonna con il manto e sotto il suo manto ci sono i bambini di un po’ tutte le razze. E’ un’immagine che fa capire quale sia l’invito all’unità.
D. – Un particolare momento di incontro sarà a Ouidah, dove il Papa incontrerà i sacerdoti, i seminaristi, i religiosi ed i fedeli laici …
R. – Una grazia nella grazia! Il Papa viene per incoraggiarci, anche per correggerci lì dove sbagliamo, affinché il cattolicesimo sia veramente puro, integrale, profondo senza contaminazione, e la testimonianza sia vera, piena, forte…
D. – Cosa donerete al Papa?
R. – Soprattutto questa testimonianza di radicalità, di amore appassionato a Gesù Cristo e al Vangelo, di veri testimoni della Chiesa insieme al Papa. Per noi la venuta del Papa è una spinta, ci incoraggia ad essere veramente generosi verso la santità, come San Massimiliano Maria Kolbe e San Francesco d’Assisi, dei quali seguiamo le tracce.
D. – E qual è il consiglio per seguire il viaggio del Papa?
R. – Impegniamoci tutti per accompagnare il viaggio del Papa con la nostra preghiera. (gf)
da: http://www.radiovaticana.org/it1/index.asp
PS:
Benin: un premio alla radio cattolica “Immaculée Conception”
domenica 13 novembre 2011
Il senso della morte e la vera dimensione dell'uomo
Ogni riflessione sul mistero della morte, per un credente, non può che muovere dalla contemplazione della morte di Gesù. Solo la morte di lui, che è l’immagine perfetta del Padre, il solo che realizza in pienezza il progetto di Dio sull’umanità, può infatti illuminare anche l’oscurità della nostra morte e quella dei nostri morti. Non possiamo infatti negare che di fronte alla morte ogni uomo è posto di fronte all’enigma più inquietante della sua esistenza, fonte di angoscia e di disperazione.
Ci ancoriamo pertanto alle parole della lettera dell’apostolo Paolo ai Romani, che sono state proclamate nella seconda lettura di questa liturgia, parole che, per trattare della nostra salvezza e della nostra riconciliazione con Dio, muovono appunto dalla morte di Cristo. E colpisce subito l’insistenza con cui l’apostolo ribadisce che la morte di lui non fu un incidente che ne interruppe la missione, non fu un fattore negativo che ne mise in crisi il progetto a cui si era votato. La morte di Gesù infatti non è una morte “nonostante”, nonostante la sua voglia di vita e gli orizzonti di bene e di pace che egli veniva ad aprire agli uomini. La morte di Gesù è invece descritta da Paolo coma una morte “per”, per gli empi, per noi, per la giustificazione e la salvezza dei peccatori.
Tutto questo ci aiuta a scoprire come non sia possibile comprendere la morte come un atto estraneo alla vita, fuori di essa, un evento che la chiude e quindi la annulla, la nega. Al contrario, il senso della morte è svelato dal significato che ha prima assunto la vita e verso il quale essa si è orientata. Completamente votato ai fratelli e alla loro salvezza, Gesù non abbandona con la morte questa intenzione originaria della sua esistenza nel tempo; è piuttosto la morte a svelare quanto profonda sia stata questa sua dedizione, quanto assoluto sia stato e continui ad essere il suo amore per l’umanità, un’umanità peccatrice, amata proprio per la sua debolezza e fragilità: «Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Rm 5,6). Morendo Gesù svela questa natura profonda e assoluta del suo amore e dà senso alla morte come un estremo e ultimo dono. Tutto il contrario di quanto purtroppo spesso siamo costretti a registrare attorno a noi, dove impera l’orrore della morte, ma anche l’illusione di poterla in qualche modo umanamente esorcizzare, magari con uno sberleffo, ovvero con il miraggio di diventarne i padroni e di poterla infliggere agli altri, soprattutto ai più deboli, svelando il limite del nostro gracile amore.
Liberiamoci quindi dalla tentazione di confinare la morte nel non senso; interroghiamoci invece che senso stiamo dando alla nostra morte a partire dalla nostra vita. Assimilando la nostra vita alla vita di Cristo, possiamo essere certi che anche la nostra morte potrà partecipare del suo progetto di vita per l’umanità tutta.
Perché il problema della morte non è solo questione di coglierne un senso, ma anche quello di superarla. Ed è ancora Gesù che non solo ci insegna a integrare vita e morte in un progetto d’amore, ma ci offre una prospettiva di superamento della morte. Egli infatti ha oltrepassato la soglia della morte per entrare nella vita nuova del risorto e questo costituisce, come ricorda Paolo, il fondamento di una «speranza che non delude» (Rm 5,5), perché se la sua morte ci ha riconciliati con Dio tanto più la sua vita porta a salvezza eterna la nostra esistenza di creature: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10).
C’è dunque una ragione per cui il cristiano può superare la paura e l’angoscia della morte: come lui e prima di lui quella soglia è stata superata per noi da Cristo. Attraversandola con la potenza del suo amore, il dono di se stesso fino alla fine per noi empi e peccatori, il Figlio di Dio fatto uomo ha tolto alla morte ogni potere, e ne ha fatto il passaggio verso la vera vita, verso il cammino in cui egli ci ha preceduti, «primogenito di molti fratelli» (Rm 8,29), «primogenito di quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18). L’ira della morte non ha più potere su di noi, perché siamo stati riconciliati con il Padre mediante il sangue di Gesù.
Il passaggio della morte, per chi crede nel Cristo Risorto e conforma a lui la sua vita, non è un precipitare nel nulla e nelle tenebre, ma la soglia che ci introduce nella gloria e nella luce di Dio nella compagnia del nostro Salvatore. Nella vita e nella morte non siamo più soli, da quando il Figlio di Dio fatto uomo ci ha raggiunti nel nostro cammino umano, risanando la vita e la morte, aprendo una strada alla vita oltre la morte.
Nella pagina del vangelo di Giovanni tutto questo diventa una rivelazione e una promessa di Gesù fatta ai suoi discepoli. Si tratta di affermazioni che si collocano al centro del grande discorso che Gesù rivolge alle folle, dopo la moltiplicazione dei pani, nella sinagoga di Cafarnao, il discorso in cui egli si rivela e si propone come il pane della vita dell’uomo. Una pane che ci viene offerto nelle sue parole, ma anche nel suo corpo e nel suo sangue, perché solo alimentando la nostra vita alla sua vita è possibile vincere la morte e aprirci alla vita eterna.
È questa la volontà del Padre, che non vuole che l’umanità resti preda di quella morte che, come separazione da Dio fonte della vita, è stata introdotta nel mondo dal peccato. Il Padre non accetta che noi ci disperdiamo nel nulla, ma vuole accoglierci nel suo amore e farci uscire vittoriosi dalla morte, per condurci alla vita eterna nell’ultimo giorno, quello del giudizio. Riconoscersi figli di un Padre così pieno d’amore è il germe della nostra fede, ciò che permette di accoglierla coma una parola di luce e di speranza. Ma essa non è solo parola, è esperienza vissuta nella vita di Cristo, il Figlio mandato dal Padre perché noi avessimo la vita. Riconoscere Dio come Padre e affidarci alla compagnia fraterna di Cristo indirizza la nostra vita verso la vita stessa di Dio, una vita eterna, a cui ci introduce la risurrezione nell’ultimo giorno.
Questa fede sorregge la nostra preghiera in questo momento, ci pone in comunione con i nostri morti, che sappiamo non abbandonati al nulla, ma affidati alle mani misericordiose di Dio, per la mediazione di Cristo e della Chiesa. Pregare per i nostri morti e con loro è espressione della saldezza della fede nella risurrezione, la sola che può dare speranza alla nostra vita.
Sua Ecc.za Mons. Giuseppe Betori