venerdì 6 gennaio 2012
L'Epifania: adorare Gesù con un cuore vero. Come i Santi Magi
mercoledì 4 gennaio 2012
Il Papa e la storia
L'Editoriale di oggi de L'Osservatore Romano è dedicato ad una chiara ed opportuna critica di L. Scaraffia al libro di G. Miccoli, La Chiesa dell'anticoncilio. I tradizionalisti alla conquista di Roma, Laterza, Bari 2011, pp. 420. Si critica la categoria parziale di "storia" utilizzata da Miccoli, secondo il quale, storia sarebbe tutto quello che si è attestato intorno agli anni '60: in realtà una «temperie culturale che è stata il contesto del Vaticano II e dei suoi documenti». Criticare i documenti e gli avvenimenti che a quella temperie son seguiti, per Miccoli è una riconquista di Roma (del Vaticano II). Anche Melloni parla di ritorno del tradizionalismo. Entrambi però, Miccoli e Melloni, sono accomunati in questa lucida critica: la storia non è sola una parte degli avvenimenti, e magari quella che collima con il proprio sentire. Le categorie-etichette "conservatori" e "progressisti" ormai non spiegano più niente. La storia va avanti.
(Fonte: L'Osservatore Romano del 4.01.2012, p. 1)
«La questione centrale, sottesa alle scelte da compiere, sta ancora una volta nel tipo di rapporto che la Chiesa di Roma intende stabilire con la storia: sta, per dire più precisamente, nel suo modo di pensarsi nella storia: riconosce di farne pienamente parte, come ne fa parte il Vangelo cui si richiama, o se ne sottrae, perché portatrice, intangibile dalle contingenze umane, di un messaggio che ha saputo mantenere inviolato e inalterato nel corso di duemila anni?». Con queste parole lo storico Giovanni Miccoli sintetizza il suo lungo discorso critico nei confronti di Benedetto XVI nel recente volume La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma (Laterza). Una requisitoria, la sua, fondata sulla consultazione di una massa di testi e documenti e che si basa su una lettura del concilio Vaticano II come momento di rottura di un secolare immobilismo.
Con il concilio, finalmente, la Chiesa si sarebbe messa al passo con la storia, accogliendo in quegli anni la modernità. Secondo lo studioso, quindi, la Chiesa avrebbe accettato di ridiscutere tutta la sua cultura e tutta la sua tradizione alla luce di quel cambiamento radicale che ha segnato le società occidentali del XIX e XX secolo.
L’accento sulla mancata attenzione alla storia e sul rifiuto di prenderla in considerazione da parte di Benedetto XVI — che, proprio a causa di questa presunta rimozione, viene accusato da Miccoli di rifuggire dalle distinzioni e quindi di indulgere a una «semplificazione banalizzante» — costituisce infatti l’asse portante di questo libro.
Stupisce in uno storico di vaglia — il quale, come si deduce dalle note, ha letto almeno qualche opera di Ratzinger — l’assoluta incapacità di riconoscere che il teologo oggi Papa ha sempre rivelato una straordinaria attenzione per gli aspetti storici di questioni e problemi; cercando sempre, poi, anche nei suoi interventi, di offrire un’interpretazione storica del momento che stiamo vivendo ricca di richiami all’attualità e alle sue trasformazioni. Parlare di ricerca della verità e accusare il pensiero contemporaneo di relativismo non significa certo negare la storia. Significa piuttosto dare della storia un’interpretazione che non piace all’autore del libro, ma questa è cosa ben diversa.
Per Miccoli la storia sembra identificarsi soltanto con quella degli anni sessanta, cioè con la temperie culturale che è stata il contesto del Vaticano II e dei suoi documenti. Come se tutto ciò che è successo dopo — l’applicazione cioè di quei testi, ma anche il fallimento delle utopie della modernità allora predicate nella società, nonché l’emergere di nuovi gravi problemi, quali le questioni bioetiche — non fosse anch’esso storia, e non meritasse oggi attenzione e critica. E, di conseguenza, non sollecitasse uno sguardo diverso sul concilio, diverso da quello dei suoi contemporanei. Uno sguardo storico, appunto.
Così come storico è lo sguardo da portare sulle fratture e sulle opposizioni nate negli anni del Vaticano II. Il fatto che sia passato mezzo secolo da quei tempi significa ovviamente che se ne può tentare un bilancio differente, che utilizza quali elementi di giudizio non solo proclamazioni teoriche, necessariamente datate, ma anche il comportamento degli oppositori nei decenni successivi.
La storia che secondo Miccoli dovrebbe entrare nei discorsi del Papa è sempre quella passata, e più precisamente quella che si svolgeva durante il concilio e ne influenzava ovviamente le decisioni; come se soltanto gli avvenimenti che piacciono e che si condividono siano meritevoli di essere considerati storici. Gli altri devono essere archiviati come resistenze, opposizioni, immobilismi.
Si tratta di una concezione della storia perlomeno discutibile, di cui è portatore non solo Miccoli, ma altri storici della Chiesa e in particolare del Vaticano II, i quali in questo modo arrivano facilmente a concludere ciò che a loro preme di più: che cioè i tradizionalisti — con il Papa in testa — sarebbero alla riconquista della Chiesa.
Ma perché il modo di riflettere di Benedetto XVI, chiaramente espresso nei suoi libri e nei suoi interventi, e quindi accessibile a chiunque cerchi seriamente di capire, troppo spesso non viene letto nella sua originalità e novità? Perché ogni cosa che egli dice deve per forza rientrare nei logori schemi dei progressisti e dei conservatori, che in fondo erano stati già messi in crisi dallo stesso Papa del concilio, Paolo VI, con la pubblicazione dell’Humanae vitae?
È come se la schematicità della visione politica del nostro tempo facesse velo a una vera e libera interpretazione — che naturalmente può essere anche critica — di questo pontificato che, in qualsiasi modo lo si voglia giudicare, si sta rivelando sempre più sorprendente e interessante. Gli storici ci metteranno cento anni per capirlo? Speriamo di no.
Lucetta Scaraffia
martedì 3 gennaio 2012
New San Francesco
(Fonte: Il Foglio del 29/12/2011) Il fascino della predicazione di padre Manelli, un miracolo nella sterile chiesa post conciliare.
Nella mia città, Trento, vi è un immenso seminario. Prima che la chiesa si “addormentasse”, per citare il titolo dell’ultimo libro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (“La bella addormentata”, Vallechi), il seminario era straboccante.
Circa mille giovani salivano e scendevano le scale, ogni giorno, dalle aule alla cappella, in attesa di un futuro da ministri di Dio. Trento è infatti una città che ha sempre dato molto, alla chiesa, e soprattutto alle missioni, in Africa e in America latina. Poi la crisi che tutti conosciamo, e il seminario prosciugato. Cinque, sei, dieci persone massimo (questo il trend da molti anni) si aggirano in una struttura immensa, sproporzionata, che parla di uno splendore lontano.
Dove c’erano vita, movimento, speranze, desideri, oggi ci sono stanze quasi vuote e locali pressoché silenti. Ma chi crede, sa che Dio non abbandona gli uomini. I tempi di Dio sono lunghi, è vero, e talora viene voglia di cantare, con san Filippo Neri: “Capitan Gesù, non stà lassù, lui sta quaggiù con la bandiera in mano…”. Ma i segni di un lento risveglio ci sono. Penso, per esempio, a due famiglie trentine che conosco, che hanno visto partire, sacerdoti e suore, l’una tre figli su tre, l’altra tre figli su quattro.
Rifletto con mia moglie, ogni tanto, sui prodigi di Dio: prendersi, oggi, sei giovani su sette, in due sole famiglie! Convincerli a lasciare tutto, il rumore del mondo, la carriera, per indossare un abito azzurrino, semplice semplice, come quello di san Massimiliano Kolbe, e un paio di sandali. Per affrontare una vita, quella del religioso, spesso dura, ricca di privazioni, senza una propria famiglia e una propria fissa dimora.
C’è veramente una potenza immensa nella chiamata di Dio. Come uomini rimaniamo liberi di accoglierla o meno, ma quando il cuore lascia spazio al soprannaturale, esso esplode nella natura umana, capovolgendola, trasformandola, spingendo a scelte che sarebbero, altrimenti, incomprensibili.
Dio può ancora oggi entrare in una famiglia, aperta alla voluntas Dei, come un tuono che entra dalla finestra della torre, per spazzare via ogni cosa! Certo, perché sei giovani su sette lascino la loro casa, i loro studi, il loro lavoro, legittime ambizioni, occorre che l’abito che indosseranno abbia un grande fascino. E quello dei francescani dell’Immacolata lo ha. Grazie, soprattutto, al suo fondatore, ancora in vita: padre Stefano Maria Manelli.
“Padre Stefano”, come lo chiamano familiarmente i suoi frati, è per me una conoscenza di infanzia. Mio padre leggeva a noi figli, intorno al lettone matrimoniale, le sue meditazioni, molti anni prima che avessi l’opportunità di conoscerlo dal vivo. Io allora non lo sapevo, ma i libri di spiritualità di Mannelli, sono, oggi, quasi un unicum. Hanno un sapore medioevale, cioè un gusto forte, dolce e amaro nello stesso tempo.
Padre Stefano, dopo il Concilio Vaticano II, nel 1970, a causa di un progressivo indebolimento dell’osservanza religiosa, aveva chiesto ai superiori di iniziare con un compagno, padre Gabriele Maria Pellettieri, un’esperienza di vita secondo il modello francescano delle origini. Andare alle origini del francescanesimo significa anche tornare a una predicazione essenziale, quella dei fioretti, degli exempla medievali.
Leggere un libro di padre Stefano, ascoltare una sua predica, significa gustare la dottrina cattolica calata nel reale, incarnata nella storia. Niente a che vedere con i fumosi discorsi di taluni teologi, che vorrebbero assomigliare ai filosofi del passato o agli psicologi del presente. Nulla a che vedere con le prediche sciape, assolutamente vaghe, senza alcun contatto con la realtà, o assolutamente sociologiche (tutte uomomondo- società), di tanti predicatori odierni.
I frati con la telecamera
Padre Stefano propone sempre una visione teocentrica: Dio, l’uomo, i santi; morte, giudizio, inferno e paradiso. La dottrina viene mescolata con la vita, con gli esempi concreti tratti appunto dall’esistenza dei più fedeli seguaci di Cristo. Un po’ come le catechesi di padre Livio a Radio Maria, anche quelle di padre Stefano non lasciano indifferenti lettori e ascoltatori: li scuotono, li incalzano, non temono di turbare. Nello stesso tempo indicano cime, vette da raggiungere, da scalare; additano esempi affascinanti, propongono visioni soprannaturali.
Qualcuno si ritrae spaventato, qualcuno, invece, percepisce la voce di Colui che è venuto a salvarci, ma anche a svegliarci dal sonno. Quando decise di tentare la sua strada, padre Stefano scelse la città di Frigento, vicino ad Avellino, dove vi era un convento vecchio e malmesso, che divenne la prima Casa Mariana dell’Istituto dei frati francescani dell’Immacolata (dal 1998 di diritto pontificio).
Padre Manelli è fondatore anche delle suore francescane dell’Immacolata, molto dedite, come i frati, alla buona stampa (si va dalle pubblicazioni edificanti, popolari, alle riviste filosofiche e teologiche di alto livello) e all’evangelizzazione attraverso l’uso dei media più moderni. Se incontrate per strada un frate o una suora, azzurri, stile francescano, con in mano una sporta stile fra Galdino, e nell’altra una telecamera modernissima, ora sapete a che ordine appartiene.
Francesco Agnoli
lunedì 2 gennaio 2012
Benedetto XVI e il mistero della verginità di Maria
Nell’Angelus del 18 dicembre 2011, il S. Padre si è soffermato sulla verità della verginità di Maria, segno della divinità del Verbo che in Lei si incarna. Benedetto XVI ha principiato la sua riflessione dalla stupenda icona dell’Annunciazione, quando Maria accoglie la Parola e risponde con il suo generoso Sì. Questo Fiat paradigmatico di Maria, che dà inizio alla storia della salvezza, sarà al centro anche dell’Angelus del 1° gennaio, che dava inizio alla catechesi petrina per il nuovo anno.
Diceva il S. Padre nella IV domenica di Avvento:
«Contemplando l’icona stupenda della Vergine Santa, nel momento in cui riceve il messaggio divino e dà la sua risposta, veniamo interiormente illuminati dalla luce di verità che promana, sempre nuova, da quel mistero».
Il S. Padre così conferma il valore mariologico della profezia messianica di Isaia 7,14: la donna profetizzata non può che essere Maria SS. Non la moglie di Acaz (dove l’Emmanuele sarebbe Ezechia, figlio di Acaz) o un’altra donna contemporanea al profeta. È necessario muovere dal contesto storico immediato al futuro messianico dell’unico “Dio-con-noi”, Gesù Figlio di Dio e di Maria; solo così si rispetta il valore profetico del testo:
«Sullo sfondo dell’avvenimento di Nazaret c’è la profezia di Isaia. “Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele” (Is 7,14). Questa antica promessa ha trovato compimento sovrabbondante nell’Incarnazione del Figlio di Dio. Infatti, non solo la Vergine Maria ha concepito, ma lo ha fatto per opera dello Spirito Santo, cioè di Dio stesso. L’essere umano che comincia a vivere nel suo grembo prende la carne da Maria, ma la sua esistenza deriva totalmente da Dio. È pienamente uomo, fatto di terra – per usare il simbolo biblico – ma viene dall’alto, dal Cielo».
Di qui la riflessione magisteriale sulla necessità di accogliere il mistero della verginità di Maria, perché da esso dipende la retta fede in Gesù vero Dio e Salvatore. La verginità di Maria e la divinità di Cristo, dice il S. Padre, si richiamano e si illuminano a vicenda: se Maria è vergine quel Figlio è Dio; se quell’uomo Gesù è vero Dio disceso dal cielo Maria è madre e vergine. Se una vergine poteva essere madre questa vergine non poteva che essere la Madre di Dio, e se una donna poteva essere la Madre di Dio, questa madre non poteva che essere sempre vergine, direbbe S. Bernardo. Pertanto, chi nega la verginità di Maria, di conseguenza nega la divinità di Cristo e viceversa. Non è un caso che tutte quelle cristologie dal basso, pullulate nello sfrenato post-concilio, abbiano messo in seria discussione la verginità fisica di Maria. Si pensi a K. Rahner, che pur di dialogare con Mitterer, mise in discussione la verginità di Maria nel parto. Maria in realtà è segno di Cristo: lo annuncia nella sua verità integrale, come integralmente è da conservarsi la verità della sempreverginità di Maria. Negare un aspetto del dogma mariano implica la negazione del dogma cristologico. Diceva il Pontefice:
«Il fatto che Maria concepisca rimanendo vergine è dunque essenziale per la conoscenza di Gesù e per la nostra fede, perché testimonia che l’iniziativa è stata di Dio e soprattutto rivela chi è il concepito. Come dice il Vangelo: “Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio” (Lc 1,35). In questo senso, la verginità di Maria e la divinità di Gesù si garantiscono reciprocamente».
Sembra, inoltre, che il Pontefice voglia dirimere la questione del voto/promessa di verginità di Maria. Molti esegeti sono concordi nel vedere nella domanda di Maria all’angelo: «Come avverrà questo…non conosco uomo», un chiaro riferimento alla promessa che la Madonna aveva già fatto in cuor suo di essere consacrata totalmente e verginalmente al Signore. Non mancano però anche altri esegeti che negano questa promessa di Maria, e quindi questa consapevolezza di dar inizio in modo stupendo al grande segno per la Chiesa di una consacrazione verginale, rispecchiata ed incarnata nella vita religiosa. Ma il S. Padre vi fa riferimento, e coglie il valore profetico-verginale della domanda di Maria, quando dice:
«Ecco perché è così importante quell’unica domanda che Maria, “molto turbata”, rivolge all’Angelo: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?” (Lc 1,34). Nella sua semplicità, Maria è sapientissima: non dubita del potere di Dio, ma vuole capire meglio la sua volontà, per conformarsi completamente a questa volontà. Maria è infinitamente superata dal Mistero, eppure occupa perfettamente il posto che, al centro di esso, le è stato assegnato. Il suo cuore e la sua mente sono pienamente umili, e, proprio per la sua singolare umiltà, Dio aspetta il “sì” di questa fanciulla per realizzare il suo disegno. Rispetta la sua dignità e la sua libertà. Il “sì” di Maria implica l’insieme di maternità e verginità, e desidera che tutto in Lei vada a gloria di Dio, e il Figlio che nascerà da Lei possa essere tutto dono di grazia».
E così concludeva, richiamando l’inestimabile valore della verginità-castità anche per i discepoli di Cristo, invitati dal Maestro a mettere al primo posto il Regno di Dio e la sua giustizia, ovvero la sua santità:
«Cari amici, la verginità di Maria è unica e irripetibile; ma il suo significato spirituale riguarda ogni cristiano. Esso, in sostanza, è legato alla fede: infatti, chi confida profondamente nell’amore di Dio, accoglie in sé Gesù, la sua vita divina, per l’azione dello Spirito Santo».
Infine, la grandezza di Maria, Madre di Dio e icona della presenza amorosa di Dio in mezzo al suo popolo, è stata al centro del primo Angelus del S. Padre, all’inizio del nuovo anno 2012:
«Il volto di Dio noi lo possiamo contemplare, si è fatto visibile, si è rivelato in Gesù: Egli è l’immagine visibile del Dio invisibile. E questo grazie anche alla Vergine Maria, della quale oggi celebriamo il titolo più grande, quello con cui partecipa in modo unico alla storia della salvezza: essere Madre di Dio. Nel suo grembo il Figlio dell’Altissimo ha assunto la nostra carne, e noi possiamo contemplare la sua gloria (cfr Gv 1,14), sentire la sua presenza di Dio-con-noi. Iniziamo così il nuovo anno 2012 fissando lo sguardo sul Volto di Dio che si rivela nel Bambino di Betlemme, e sulla sua Madre Maria, che ha accolto con umile abbandono il disegno divino. Grazie al suo generoso “sì” è apparsa nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo (cfr Gv 1,9) e ci è stata riaperta la via della pace».
Il Sì di Maria è il vero inizio del tempo e della ricreazione: la Luce che è Cristo suo Figlio ha iniziato ad irradiare ogni uomo di buona volontà e a fugare le tenebre dell’ignoranza e del male. Dove c’è la Madonna lì vi è la luce del Verbo, il quale ci rende figli di Dio.
p. Serafino M. Lanzetta, FI