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martedì 16 gennaio 2018

Sempre Vergine? La risposta podcast di P. Lanzetta



Trasmissione su "Radio Buon Consiglio", tenuta  il 15 gennaio 2018, 
sul libro Sempre Vergine? Una risposta, Chorabooks 2018, 

a cura di P. Serafino M. Lanzetta e di Antonio Farina.





Il libro si può acquistare nel formato cartaceo e kindle su Amazon.it; nel formato Epub su tutte le librerie on-line.

sabato 27 settembre 2014

Mercy according to Cardinal Kasper



We offer an extensive book review on the last Work of Cardinal Kasper, dedicated to the Mercy of God. Kasper's considerations on Mercy have doctrinal and pastoral implications for Marriage. Original text was published in Italian at www.chiesa and on this Blog.


If Mercy neutralizes Justice, it annuls itself
By Fr Serafino M. Lanzetta


We greet with great interest the theological effort of Cardinal Walter Kasper to restore the theme of God’s mercy not only to the centre of the Church’s preaching and pastoral approach, but - above all – to the centre of theological reflection. In his recent book on Mercy, which appeared in German in 2012 and was then translated into Italian by Queriniana (Giornale di Teologia 361) in 2013, "Misericordia: Concetto fondamentale del vangelo - Chiave della vita" [published in English under the title "Mercy: The Essence of the Gospel and the Key to Christian Life"], the German Cardinal, for many years president of the Pontifical Council for Christian Unity, parts from a bitter observation: Mercy, which occupies a central place in the Bible, has in fact fallen completely into oblivion in Systematic Theology, being treated only in an accessory manner. Up until the threshold of the 1960s it has no central place in the manuals of Systematic Theology, and in the more recent manuals it can even be totally lacking. If it does appear, it takes a place which is wholly marginal. Notwithstanding the fact that the pontificate of John Paul II gave a great impulse to the rediscovery of Mercy, as a theological and spiritual theme – thanks above all to the Polish saint, Faustina Kowalska – and that Benedict XVI made it, in a certain way, his guide, with the first encyclical on love, "Deus caritas est", the theme still remains hidden in its potential development for theology, and therefore for Christian life. Our Cardinal, then, in his text with which we occupy ourselves (5th Italian Edition, 2014), takes up this issue, and presents on a systematic level the theme of God’s Mercy.        


A Justice that retracts into Mercy?

Mercy is an indispensable medicine, it is the ingredient that is sadly lacking, but that – on closer inspection – represents the only true response to the Atheism and the ever so pernicious ideologies of the Twentieth Century. How does one announce again a God whose even existence, after Auschwitz, we would do better to pass over in silence? Historically, in Kasper’s judgement, supported by O. H. Pesch, "the idea of a chastising and vindictive God has cast many into anguish regarding their eternal salvation. The most well-known case, and a harbinger of grave consequences for History, is that of the young Martin Luther, who was for a long time tormented by the question: 'How can I find a kind God?', until he recognised one day that, in the sense of the Bible, God’s Justice is not his punitive justice, but his justifying justice and, therefore, his Mercy. On this matter, in the Sixteenth Century, the Church divided" (p. 25), and so, from that moment, the rapport between Justice and Mercy became a central question for western theology.     

mercoledì 24 settembre 2014

P. Cavalcoli rincara la dose sulla misericordia del cardinale Kasper



Giustizia e misericordia
di p. Giovanni Cavalcoli, O.P.

In un recente articolo apparso in www.chiesa il Padre Serafino Lanzetta manifesta alcune osservazioni critiche al libro del Card. Kasper “Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo – Chiave della vita”.

Dato che il libro di Kasper tocca alcuni temi teologici e morali di grande importanza e attualità, ho ritenuto bene riprendere e sviluppare le sagge annotazioni dell’illustre teologo francescano.

Innanzitutto dobbiamo condividere l’idea di Kasper che il tema della divina misericordia è una grande medicina per guarire dall’ateismo, ma non per il motivo addotto da Kasper, secondo il quale Dio non castiga ma usa solo misericordia, per cui, dopo Auschwitz, dovremmo abbandonare l’idea di un Dio che punisce.

In realtà, l’idea di Kasper è sbagliata, perché nella Scrittura l’attributo divino della giustizia punitiva è evidentissimo. Si tratta solo di intenderlo nel senso giusto, non come azione divina positiva tesa a recare pena o dolore al reo, ma si tratta di un’espressione metaforica presa dalla comune condotta umana, per significare il fatto che è il peccatore stesso col suo peccato a tirarsi addosso la punizione, così come per esempio chi eccede nel bere è “punito” con la cirrosi epatica. Questo è chiarissimo nella Bibbia. La morte non è qualcosa che consegue al peccato per un irrazionale o casuale intervento divino, ma è la conseguenza logica e necessaria del peccato, così come chi ingerisce un veleno necessariamente muore.

giovedì 18 settembre 2014

La misericordia secondo il cardinale Kasper



Offriamo ai lettori un'ampia recensione di p. Serafino M. Lanzetta, sull'ultima opera del Card. W. Kasper, dedicata alla misericordia, concetto chiave del vangelo e della vita cristiana.


È da salutare con grande interesse lo sforzo teologico del card. Kasper di rimettere il tema della misericordia di Dio non solo al centro della predicazione e della pastorale della Chiesa, ma soprattutto al centro della riflessione teologica. Nel suo recente libro sulla misericordia, apparso in tedesco nel 2012 e poi tradotto in italiano per i tipi della Queriniana (Giornale di Teologia 361) nel 2013, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo - Chiave della vita, il cardinale tedesco, per lunghi anni presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, parte da un’amara constatazione: la misericordia, la quale occupa un posto centrale nella Bibbia, è difatti caduta completamente in oblio nella teologia sistematica, trattata solo in modo accessorio. O non occupa un posto centrale nei manuali di teologia sistematica fino alle soglie degli anni 1960, o addirittura manca del tutto in quelli recenti. Se vi compare, occupa un posto del tutto marginale. Nonostante che il pontificato di Giovanni Paolo II avesse dato un grande impulso alla riscoperta della misericordia, come tema teologico e spirituale, grazie soprattutto alla Santa polacca, S. Faustina Kowalska, e che Benedetto XVI ne avesse fatto, in un certo modo, la sua direttrice, con la prima enciclica sull’amore, Deus caritas est, il tema rimane ancora nascosto nel suo potenziale sviluppo per la teologia e quindi per la vita cristiana. Il nostro cardinale, dunque, in questo suo testo, di cui ci occuperemo (5a ed. it. del 2014), raccoglie questa sollecitazione, e presenta a livello sistematico il tema della misericordia di Dio.


Una giustizia che si ritrae nella misericordia?

La misericordia è una medicina indispensabile, è l’ingrediente che purtroppo manca, ma che a ben guardare rappresenta l’unica vera risposta agli ateismi e alle ideologie così perniciose del XX secolo. Come annunciare di nuovo un Dio, di cui, dopo Auschwitz, faremmo solo meglio a tacerne l’esistenza? Storicamente, a giudizio di Kasper, suffragato da O.H. Pesch, «l’idea di un Dio castigatore e vendicativo ha gettato molti nell’angoscia a proposito della loro salvezza eterna. Il caso più noto e foriero di gravi conseguenze per la storia della chiesa è il giovane Martin Lutero, che fu per lungo tempo tormentato dalla domanda: “Come posso trovare un Dio benigno”, finché egli un giorno riconobbe che, nel senso della Bibbia, la giustizia di Dio non è la sua giustizia punitiva, ma la sua giustizia giustificante e, quindi, la sua misericordia. Su di ciò, nel XVI secolo la Chiesa si divise» (p. 25), e così da quel momento, il rapporto giustizia e misericordia divenne una questione centrale della teologia occidentale.

sabato 27 aprile 2013

La vita come dono, in marcia per la sua difesa




(di Michele Lanzetta su Riscossa Cristiana) 

Con la superbia Lucifero scelse di perdere amore, bontà e bellezza. Oggi, con la superbia, l’uomo sceglie di essere divorato dalle fauci del peccato a tutti i costi, chiamandolo “diritto” e “dignità”. Un diritto spesso camuffato da un concetto arbitrario di libertà, che, mascherata di buonismo, diventa sempre più intollerante verso gli indifesi ed impone l’opinione del più forte.


La vita soprattutto come “dono” e la libertà come possibilità di “accogliere sempre la verità” sono gli aspetti che caratterizzano “Avrò cura di te. Custodire la vita per costruire il futuro”, il nuovo lavoro editoriale di Padre Serafino Maria Lanzetta rientrante nell’importante collana di Fede & Cultura, «I libri del ritorno all’ordine», diretta da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro.

«Viviamo in un mondo libero e multiculturale - spiega Padre Serafino - che permette a ciascuno di essere quello che vuole. Ma è un mondo chiuso, soprattutto ai più deboli, che sono privi anche della voce per potersi difendere. E’ un mondo in cui è sempre più difficile entrare, a causa dell’aborto, e sempre più facile uscirci, per l’eutanasia. E’ una società dominata dall’individualismo e piena di contraddizioni. Chiudersi a Dio, però, significa chiudersi alla verità prima, che è la vita». 

Ai nostri giorni si venera tanto il corpo, ma nel contempo si cerca di annichilirlo prima della sua venuta al mondo. Oppure, in nome di un risparmio di sofferenze, si cerca di farlo dipartire prima della sua fine naturale. Contraddizioni illogiche ed assurde, queste, che si specchiano in azioni politiche che hanno la volontà di sovvertire ciò che è secondo natura. «Esigere di essere ciò che Dio non ha fatto, di fare ciò che non è conforme alla dignità della persona umana e alla natura creata da Dio, di eliminare ciò che non ci conviene ma che è vita, un cuore che pulsa, significa semplicemente trascinarsi e trascinare altri, incauti osservatori e loquaci protagonisti, verso il baratro», dichiara il teologo francescano. 

Si vogliono ribaltare i principi fondamentali della vita e della convivenza: molti figli di questa ideologia, per esempio, non dovranno più avere un padre ed una madre come da normalità, ma un genitore A ed un genitore B. Ma dove si andrà di questo passo? Qual è la strada da seguire per uscire da questo vicolo cieco? «All’origine di tutto c’è il “dono” di Dio - afferma Padre Serafino Lanzetta - La nostra vita è il dono iniziale e foriero di ogni altro bene. Se la si protegge si edifica la società. Far nascere un bimbo, accudirlo, è assicurare il vero bene dell’uomo, oggi e domani. Per il semplice fatto che se manca la vita, o se essa è indifesa, niente più sarà veramente umano. Non varrà più la pena vivere. L’esistenza verrà ingoiata, da un momento all’altro, dall’improvvida morte, la quale è sempre al nostro fianco». 










E proprio in difesa del valore universale del diritto alla vita il prossimo 12 maggio 2013 si terrà a Roma la III edizione della “Marcia Nazionale per la Vita”, iniziativa volta ad affermare la sacralità della vita umana e la sua assoluta intangibilità dal concepimento alla morte naturale e finalizzata a contrastare qualsiasi atto volto a sopprimere la vita umana innocente o ledere la sua dignità incondizionata ed inalienabile. 

«Si tratta anche e soprattutto di esprimere la nostra protesta contro l’uccisione degli innocenti, che in Italia è stata legalizzata dalla legge 194 del 22 maggio 1978 - spiega Virginia Coda Nunziante, portavoce della “Marcia Nazionale per la Vita” 2013 - Il nostro rifiuto dell’aborto, e della legge che lo legalizza, è totale, senza eccezioni e senza compromessi». 

L’appello alla partecipazione è rivolto non solo ai cattolici, ma a tutti coloro che riconoscono l’esistenza di una legge naturale, scritta nel cuore di ogni uomo, che proibisce l’uccisione dell’innocente. L’aborto non viola solo la morale cattolica, ma la legge naturale, valida per ogni uomo, in ogni epoca e sotto ogni latitudine. 

Questo spiega come lo scorso anno si sia registrata la partecipazione di cittadini italiani evangelici, ortodossi e buddisti, ma anche dichiaratamente atei. L’edizione 2013 della Marcia si concluderà a Castel Sant’Angelo e non in Piazza San Pietro, proprio per sottolineare il carattere non confessionale dell’iniziativa, aperta a tutti gli uomini di buona volontà.

Michele Lanzetta

sabato 1 dicembre 2012

Il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione



Piero Vassallo, su Riscossa Cristiana, recensisce l'ultimo libro di p. Lanzetta. 


Iniziata dalla strabiliante lezione di Alexandr Kojève sulla radice nichilistica/thanatofila della filosofia di Hegel, accelerata dall'interpretazione accademica (heideggeriana) del furente dionisismo di Nietzsche e perfezionata dal mostruoso e sbalorditivo influsso della teologia nazista nella scolastica francofortese, la rivolta del pensiero moderno contro se stesso è ormai al punto di non ritorno. 

Avvertita da Benedetto XVI, tale evidenza pone la necessità inderogabile di correggere le tesi dei cattolici modernizzanti intorno alla possibile riconciliazione con un universo teoretico irrimediabilmente segnato dalla schizofrenia post-illuminista, ovvero dalla guerra della cometa jettatoria contro i pensieri della cometa trionfalista. 

I moderni apostati, invece di correggere i loro errori, hanno incrementato la loro ostilità nei confronti della vera fede e la loro refrattarietà ai princìpi di ragione, smentendo le tesi che animavano l'indulgenza dei nuovi teologi e deludendo il generoso apprezzamento della loro inclinazione all'autocritica formulato da Giovanni XXIII nell'allocuzione inaugurale del Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia. 

L'ottimismo mordeva i freni della cautela: "Lo spirito della modernità e la Chiesa, ha scritto di recente Benedetto XVI, non si guardavano più con ostilità, ma camminavano l'uno verso l'altro. Il Vaticano II era cominciato in questo clima ottimistico della riconciliazione finalmente possibile fra epoca moderna e fede; la volontà di riforma dei suoi padri ne era plasmata. Ma già durante il concilio questo contesto cominciò a mutare".

Di qui l'urgenza, di aggiornare la definizione dell'errore moderno e di scoprire e neutralizzare, fra le righe del Concilio Vaticano II e del paraconcilio, le orme della benevolenza tradita e dell'ottimismo deluso. 

L'anacronistica ostinazione dei teologi modernizzanti, in quelle orme crede, infatti, di leggere l'intenzione di dialogare con il mondo assumendo "la filosofia prevalente nella modernità, agnostica e scettica quanto al mistero, dubbiosa e formalmente fenomenica". 

Padre Serafino Lanzetta, giovane e brillante studioso, all'avanguardia nella corrente dei teologi fedeli alla Tradizione e obbedienti al Papa, sostiene che la Chiesa è turbata da un accecamento storicista, incapace di comprendere che "il Vaticano II non si identifica con la Tradizione della Chiesa, non è il suo fine: questa è più grande, mentre il Concilio ne è un momento espressivo e solenne; si dimentica poi il suo carattere magisteriale ordinario, sebbene espresso in forma solenne dall’Assise conciliare, per sé non infallibile; si dimentica infine, che i documenti del Vaticano II - a differenza di Trento e del Vaticano I - sono distinti in Costituzioni, Dichiarazioni e Decreti e pertanto non hanno tutti il medesimo valore dottrinale, rimanendo pur sempre chiara e fontale l'attitudine generale del Concilio di insegnare in modo autentico ordinario". (Cfr. Iuxta modum. Il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione della Chiesa, Cantagalli, Siena 2012). 

Padre Lanzetta afferma risolutamente che "la Chiesa trascende il Concilio e ogni sua manifestazione" quindi stabilisce la necessità "di far ritornare il Concilio Vaticano II nell'alveo della Chiesa: prima la Chiesa e poi i suoi concili". 

È tuttavia da respingere la pretesa di correggere il Vaticano II, "utopia di chi vuole riscrivere la storia che più non c'è o di chi vuole semplicemente abolire ciò che non gli piace". Il compito che incombe all'autorità cattolica è interpretare correttamente il Vaticano II, "rispettando la sua posizione magisteriale di Concilio ecumenico con un taglio eminentemente pastorale, più pastorale che dottrinale". 

Opportunamente padre Lanzetta cita il giudizio comunicato confidenzialmente a Vinicio Catturelli da un cardinale sudamericano: "Un errore forse è stato quello di dar troppa importanza al Concilio. ... È necessario sgonfiare il pallone del Super-Concilio, o forse si sta già sgonfiando". 

Il regnante pontefice, quasi assolvendo l'auspicio dei teologi fedeli alla Tradizione, ha avviato la critica di alcune ingenue e abbagliate concessioni al moderno che si leggono nella Gaudium et Spes dimostrandone la dipendenza da un equivoco intorno alla realtà dei nuovi tempi: "Dietro l'espressione vaga mondo di oggi vi è la questione del rapporto con l'età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell'età moderna. Questo non è riuscito nello Schema XIII". 

Il male che tormenta la Cristianità non è l'eresia ma la banalità del consenso tributato dai teologi di giornata a un oggetto conosciuto superficialmente.

Piero Vassallo



mercoledì 22 agosto 2012

Vitalità del cattolicesimo fiorentino. La rivista "Fides Catholica"



(da Riscossa Cristiana: una recensione dell'ultimo numero di Fides Catholica). 
Nel solco del Frontespizio, L'Ultima e Controrivoluzione, le riviste che hanno impresso un segno indelebile nella storia del Novecento tradizionalista, si pubblica in Firenze, a cura dell'Istituto Teologico Immacolata Mediatrice dei Francescani dell'Immacolata, il semestrale Fides Catholica.
Il più recente fascicolo della bella rivista fiorentina propone interessanti testi dei padri Serafino M. Lanzetta (Editoriale e La valutazione del Concilio Vaticano II in Joseph Ratzinger poi Benedetto XVI), Serafino Tognetti (Don Divo Barsotti e il Concilio Vaticano II) e Luca Genovese (La dottrina luterana vista da San Lorenzo da Brindisi), scritti che offrono al lettore indicazioni utili a una fedele e rigorosa lettura dell'ermeneutica della continuità.
Nell'Editoriale, dopo aver citato le tesi di un seguace di Teilhard De Chardin secondo il quale la formazione religiosa non dovrebbe concentrarsi sui concetti ma orientarsi dinamicamente verso il progresso, padre Lanzetta dimostra che la teologia cattolica è insidiata da un'ondivaga passione per l'agire, attitudine che tradisce la dipendenza della nuova teologia dal moderno soggettivismo.
Poiché nella teologia postconciliare "la prassi ha prevalso sulla Fede", ai cattolici contemporanei incombe l'obbligo di "coniugare Fede e ragione, Fede e dogma, dunque fede e annuncio. Una catechesi su Cristo e sulla Fede non può semplicemente abbandonare le formule della Fede, il Catechismo come unità dogmatica, morale e spirituale, per fare spazio all'approccio più discorsivo della Fede solo esperenziale di Cristo. Si finisce purtroppo per credere in un altro Gesù, quello dei nostri desideri, quello che ci insegnerà una verità più consona all'oggi e alle mode del tempo".
Nel convincente saggio sul Vaticano II padre Lanzetta rammenta l'amara riflessione di Joseph Ratzinger sull'infelice esperienza di Teresa d'Avila in un convento d'avanguardia, "dove venivano interpretate con uno spirito largo le regole della clausura" e il coerente giudizio secondo cui la conversione della carmelitana venne quando lasciò da parte l'aggiornamento.
L'allontanamento della Santa d'Avila dalla disciplina mondanizzata introduce la corretta lettura del  Vaticano II. Secondo Ratzinger: "I fedeli ai quali parliamo si domandano: il Concilio non ha preso la via inversa? Non vuole avere a che fare con la conversione per andare verso la perversione della Chiesa? Né l'una né l'altra di queste domande possono essere puramente e semplicemente scartate".
Padre Lanzetta sostiene risolutamente che nel Vaticano II la Chiesa visse un momento di grande timidezza davanti al mondo: "C'era uno spirito del Concilio con una tendenza masochista".
Eletto pontefice, Ratzinger ha peraltro affermato la perniciosità di un'ermeneutica che pone la Chiesa in conflitto con se stessa, "contro la sua storia e trasforma il Concilio in una Costituente (questa era un'idea molto cara a Giuseppe Dossetti, iniziatore della Scuola di Bologna)". Scuola che ha coltivato l'abbagliante illusione che nel Vaticano II contempla il nuovo inizio e una nuova pentecoste del cattolicesimo.
In conclusione "non vi è opera di difesa [del Vaticano II] più benemerita che mostrarne la sua corretta interpretazione alla luce di tutta la Dottrina cattolica, ovvero la bimillenaria tradizione della Chiesa".
Padre Tognetti propone la rilettura dei duri commenti al Vaticano II scritti da don Divo Barsotti nel tormentato biennio 1967-1968. Un giudizio del mistico fiorentino riassume le cause dell'angoscia che opprimeva gli spettatori delle acrobazie verbali messe in scena dai teologi ubriacati dalle novità striscianti fra le righe del concilio: "Certi adattamenti non li capisco, certi rinnovamenti mi sembra siano solo tradimenti. Non riesco a capire chi sia Dio per tanti teologi, per tanti scrittori, per tanti preti e religiosi. Non riesco a credere che quello che fanno, che quello che dicono, che quello che scrivono derivi davvero da una fede vissuta, da una vita religiosa profonda, dalla preghiera".
Opportuna è infine la rivisitazione, proposta da padre Luca Genovese, degli scritti di uno strenuo contestatore della teologia, il cappuccino San Lorenzo da Brindisi (+1619), elevato al rango di Dottore della Chiesa da Giovanni XXIII nel 1959. La rievocazione di padre Genovese mostra la simultaneità del progetto di convocare un Concilio con l'alto riconoscimento della dottrina di un religioso illuminato e intransigente che ha segnato i limiti dell'ecumenismo.
Le incerte espressioni che baluginano nei documenti del Vaticano II, ad esempio il giudizio sulla sussistenza della vera fede nelle sette ereticali, si devono leggere pertanto nella luce della rigorosa ortodossia: "Poiché la setta dei Luterani non è stata fondata sopra questa pietra non può appartenere alla Chiesa di Cristo e neppure a Cristo ma è rivolta solo all'anticristo". Condiviso e apprezzato dal papa che ha convocato il Vaticano II, il giudizio di San Lorenzo indica il coerente orientamento dell'ermeneutica della continuità nella delicata e controversa questione dell'ecumenismo.
Merita una speciale citazione il saggio che lo storico Giuseppe Brienza ha dedicato a Fausto Belfiori, un fra i più coraggiosi testimoni della resistenza cattolica all'eversione teologica e politica nel xx secolo.

Piero Vassallo

lunedì 23 luglio 2012

Vera e falsa teologia. Un contributo filosofico propedeutico per la scienza della fede


L’opera di Mons. Antonio Livi che ha visto da poco la luce, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa” (Leonardo da Vinci, Roma 2012), si propone un servizio davvero indispensabile alla teologia oggi, quando un grande marasma d’idee, spesso contraddittorie e negantesi a vicenda, finisce col lasciare la stessa scienza della fede nell’incertezza, nel pluralismo, purtroppo anche nel dubbio circa i misteri della fede. Potrebbe darsi che la fede si sia smarrita e che la Chiesa si confronti con una grave crisi nel suo interno anche perché gran parte della teologia cattolica odierna ha sostituito l’approccio epistemico veritativo al dogma con una ragione chiusa a Dio, e intenta unicamente al soggetto uomo? Forse che alla ragione capace della verità e dell’eternità abbiamo sostituito la problematicità dell’essere degli essenti? Sì, di qui nasce il problema anche della fede, senza più saper come uscire dal vuoto che ci attanaglia e senza saper dare più una risposta di senso alla rivelazione di Dio. 

Livi denuncia – da molti anni ormai – lo smarrimento del senso comune, ovvero di quelle verità evidentissime che sono il presupposto di ogni sana logica; negarle equivarrebbe a rinunciare al pensiero filosofico oggettivo; negarle ha effetti dirompenti poi anche in teologia: comporta un allontanarsi da ciò che è dato, dal dogma della fede, così che, col pretesto di insegnare la fede in modo nuovo, si finisce col dire cose completamente nuove o di negare (almeno implicitamente) quanto Dio ha rivelato. Vera e falsa teologia è un giudizio sui presupposti che devono animare la scienza della fede, dunque la vera teologia e al contempo smascherare quella che invece è soltanto un’“equivoca filosofia religiosa”, perciò una falsa teologia. Digerire nel contesto odierno i due aggettivi, “vera e falsa”, applicati alla teologia non è certo facile, né assonante con la metodologia del pluralismo. Rimane tuttavia un compito importante distinguere il vero dal falso per non rischiare di trasformare la fede in una vaga credenza. Bisogna ripartire dalla realtà, nel nostro caso dalle verità di fede credute e perciò, di conseguenza, lette con acribia e metodo nel loro intimo per un’esposizione razionale, armonica e convincente. Entriamo così nel merito dell’opera, presentandone i passaggi salienti. 


1. Una doppia crisi che investe la Chiesa annodata a un solo problema 

È opportuno partire da un giudizio che Livi dà sull’ultimo scorcio della storia, riassumente in modo vistoso gli imperativi della modernità. Si delinea un passaggio significativo che evoca una doppia crisi: «dal modernismo del primo Novecento alla cosiddetta teologia post-conciliare». C’è una continuità che lumeggia due movimenti interrelati, e sebbene distinti, fortemente influenzantisi a circa un secolo di distanza: il modernismo, fondamentalmente basato sull’evoluzione della verità, a sua volta declinato in modo razionalistico secondo Hegel e irrazionalistico o sentimentalistico secondo Schleirmacher, e il neo-modernismo, presentato talvolta anche come “teologia post-conciliare” (perché una teologia post-conciliare, che necessariamente problematizza quella pre-conciliare? Il concilio era capace di dare vita a una nuova teologia?). In questo secondo movimento dell’epoca moderna si fa un costante riferimento alla rivelazione cristiana con un’esplicita esclusione da essa della dimensione dottrinale e veritativa su Dio, sul mondo e sull’uomo. Si riduce la rivelazione alla comunicazione di eventi mediante le parole, ma non più illuminati dai contenuti di fede, ritenuti fissisti o paralizzanti l’esperienza di Dio. Si pone scorrettamente in alternativa la dimensione noetica e dinamica della Parola di Dio. 

Scrive Livi: «L’errore metodologico di fondo della cosiddetta “teologia conciliare” – rilevabile ogni qual volta essa presenta i propri orientamenti come la “nuova teologia” del Vaticano II – è il riferimento alla rivelazione cristiana con l’esplicita esclusione della sua dimensione di dottrina, ossia di verità su Dio, sul mondo e sull’uomo» (p. 270). Spesso oggi si parla di fede come incontro, come esperienza, ma senza il suo costitutivo dottrinale oggettivo. Questo lo si assorbe semplicemente nel momento soggettivo dell’atto di fede, che però può facilmente scadere in una fede fideistica. Per Livi, come ha denunciato già in precedenza, il grande problema oggi è il fideismo, che nasce da un nuovo orientamento metodologico: l’assorbimento della fede nella storia. Ciò che accomuna i teologi della discontinuità, che vedono il Concilio Vaticano II come il grande spartiacque della fede e della stessa teologia, è l’ideologia del progressismo storicistico, denominato anche “neo-modernismo”. Dal fatto che la «rivelazione non ha potuto essere altro che la coscienza acquisita dall’uomo della sua relazione con Dio» – proposizione di A. Loisy, condannata nel decreto Lamentabili (n. 20) –, facilmente si passa a considerare il Magistero stesso e la fede da esso portata come un semplice evento, attuabile di volta in volta per ritrovare una coscienza accresciuta dell’essere Chiesa e del credere cristiano. I dogmi vengono superati non mediante una semplice e oggettiva negazione ma attraverso una plurima coscienza di sé, capace di dare alla stessa fede una nuova identità, più consona ai tempi, al mondo. Si prenderà quello che è più conforme allo Zeitgeist e, tacendo ciò è dogmatico e irreformabile, di fatto lo si ignora. Oggi molti dogmi non vengono negati ma semplicemente ignorati, dimenticati e così superati. 

Una duplice crisi dunque, la quale, a giudizio di Livi, si annoda a un problema fontale d’errato approccio epistemologico alla modernità o “mondo moderno”. In molti teologi che hanno perseguito l’aggiornamento rifiutando spesso la metafisica perché scienza immobilista e incapace di dialogo, la categoria “mondo moderno” viene assunta più che come dato cronologico come a priori filosofico, e oltretutto come un’unità di pensiero chiusa al trascendente, che necessita di conseguenza un confronto al di là della metafisica, o senza di essa (al di là di Dio?). Si fa così della modernità un pensiero unico e omogeneo. Si assume come a priori il razionalismo che da Cartesio attraverso Kant arriva ad Hegel e poi ad Heidegger, ma si scarta ad esempio l’empirismo o la filosofia cristiana di Giambattista Vico. Perché Rahner, ad esempio, tenterà il dialogo con la modernità superando S. Tommaso con Kant e poi con Heidegger? Non tutto è riconducibile a Cartesio. In realtà, «il “mondo moderno” è un dato meramente cronologico, da interpretare come si vuole o come si può, sempre però con gli strumenti umani di conoscenza della realtà nella quale si vive, strumenti che non consentono la formulazione di una ragionevole concezione unitaria di quelle che sono le realtà del mondo in una determinata epoca (lo impediscono infatti l’eterogeneità dei fenomeni culturali rispetto a quelli propriamente religiosi, ma soprattutto l’estrema complessità della realtà sociale, irriducibile a una sola categoria interpretativa) [p. 260]. 

Per Livi, perciò, non esiste un “mondo moderno” con il quale la Chiesa deve confrontarsi per ragioni ecclesiologiche dipendenti dalla sua natura divino-umana. Assumere acriticamente come teologico – il dibattersi del “mondo moderno” alla ricerca di Dio nei meandri dell’esistenza – ciò che teologico non è, è all’origine di molte confusioni dottrinali odierne (cf. Ibid.). Per di più, questo tentativo che rimane filosofico può e deve essere necessariamente relativizzato partendo di nuovo dall’evidenza di quel common sense




2. Il metodo di Livi 

Veniamo così alla metodologia seguita da Mons. Livi, che contraddistingue questo eminente filosofo in una tutta la sua speculazione sul “senso comune”, volta a illuminare quelle verità evidentissime e prime senza le quali nessun discorso è possibile, nessun’altra conclusione è valida. Il senso comune è costituito da giudizi sulla realtà privi però di presupposti: corrispondono a evidenze non mediate e sono essi stessi premesse o condizioni di possibilità per la conoscenza. Livi ne individua cinque, che racchiudono poi tutti gli altri eventuali giudizi sulla realtà, da essi comunque principianti: 

1) il mondo come movimento di cose (apparire, divenire, scomparire, ecc.); 

2) l’io come soggetto conoscente (autocoscienza); 

3) gli altri a me simili (intersoggettività); 

4) la legge morale naturale quale fondamento oggettivo del rapporto con gli altri, che trascende le leggi fisiche poiché aperto alla libertà e alla responsabilità; 

5) Dio come causa prima e fine ultimo (dalla contingenza all’Assoluto). 


Bisogna pure ravvisare i principi evidentissimi di ordine logico, quali il principio d’identità e di non contraddizione, che spostano l’accento del senso comune dall’ontologia alla logica, da Livi definita “aletica”, perché poggiante sulla verità. 
Se voglio conoscere le cose, il mondo, non posso ignorare queste verità evidentissime alle quali in definitiva devo ricondurre tutti gli eventuali giudizi filosofici e teologici. La rivelazione soprannaturale non elimina le verità prime immesse dal Creatore nella creazione e rispecchianti l’ordine e l’intelligenza di Dio, piuttosto le rafforza e le presuppone. Di qui Livi muove e compie un passaggio: come nell’ambito naturale tutti i giudizi devono essere ricondotti alle verità prime del senso comune, così nell’ambito soprannaturale tutti i sistemi teologici, e cioè tutte le formulazioni scientifiche come ipotesi per spiegare la fede rivelata, devono principiare ed essere perciò ricondotte alle verità primissime soprannaturali che sono i dogmi della fede, la Parola di Dio come proposta infallibilmente dalla Chiesa. Il teologo deve partire dalle verità rivelate e in queste specchiare l’intero suo sistema. Il sistema teologico e lo stesso principio architettonico può variare in ragione della sensibilità e della scelta del teologo, ma il punto di partenza non è sottoponibile a scelta, alla sensibilità di chi vi si accosta: il punto di partenza è il Dio rivelatosi, così come rivelatosi secondo il canone della Tradizione della Chiesa. Pertanto, le tesi formulate in teologia, analogamente a quanto avviene in filosofia, possono esibire una pretesa di verità solo se risultano conformi alla “prime verità”, che costituiscono il dogma della Chiesa (cf. p. 8). 

Quindi è necessario, per argomentare così in filosofia come in teologia, far uso del metodo della presupposizione. Si tratta di risalire ai fondamenti aletici da tutti condivisibili: in filosofia con la ragione naturale e in teologia con la fede, quali condizione di possibilità di una determinata asserzione o giudizio, e allo stesso tempo, quali possibilità assoluta della conoscenza per inferenza, che è propriamente filosofico-razionale, o di quella per testimonianza, che è la conoscenza per mezzo della fede. Il metodo della presupposizione consente allora in teologia di verificare se un determinato discorso sulla dottrina della fede presuppone i dogmi come verità rivelate o se invece li assume, al dire di Livi, come espressione imperfetta e mutevole di una verità umana. Nel primo caso abbiamo una “vera teologia”, nel secondo una mera “filosofia religiosa”. Facciamo qualche esempio tra i molti. Non si può fare del dogma della impassibilità di Dio, appurato dalla ragione e difeso contro il patripassianismo o della sofferenza del Padre, contro Sabellio o della sofferenza dello Spirito Santo e contro il teopaschismo o della sofferenza e morte di Dio stesso, un semplice modus loquendi tale da poter essere superato in una nuova teologia dell’amore di Dio. Qui Dio sarebbe capace di accettare anche la sofferenza, e la Croce del Figlio sarebbe il momento propizio dell’ingresso del dolore in Lui in quanto Dio. Una teologia che, sebbene con parole poetiche e affascinanti, introduce in definitiva il mistero del male (almeno morale) in Dio stesso, nonostante le buone intenzioni di presentare un Dio più vicino, finisce semplicemente col negarlo. Se anche Dio soffre chi redimerà la nostra sofferenza? Una vera teologia deve presupporre la verità di Dio. Deve avvicinare il suo mistero con una sana ragione filosofica, evitando di incorrere nella contraddizione logica del soffrire o poter soffrire, ponendo in alternativa verità e carità, e quindi ultimamente deve essere ricondotta al mistero semplice e sublime della Redenzione di Cristo come rivelata da Dio e trasmessa ininterrottamente dal Magistero: solo Cristo ha sofferto nella sua umana natura e nel tempo della sua passione e questo per liberarci dal peccato e donarci la vita eterna. 

La fede, in fondo, è radicata su un asserto semplice e universale: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Il cristianesimo è accessibile ad ogni uomo perché coniugazione di fede e ragione. Questi poi senza mediazioni scientifiche può cogliere il contenuto della verità divina, universalmente valida e racchiusa in ogni formula dogmatica. Ciò che è incoraggiante è il fatto che anche il più grande sistema teologico è pur sempre “falsificabile” dal sensus fidei del più semplice cristiano. Il rivestimento dogmatico e infallibile di una data verità rivelata non è un involucro esterno, quasi una “protezione” voluta dalla Chiesa ma l’esplicitazione irreformabile di un nucleo che è racchiuso nella S. Scrittura e nella S. Tradizione, custodite e trasmesse dal Magistero. 

La teologia come scienza della fede e sua intelligenza, partendo dalle verità rivelate, si basa pertanto fondamentalmente su due criteri ermeneutici degli enunciati dogmatici: 

1) l’individuazione del nucleo dogmatico attraverso Scrittura-Tradizione e Magistero; 

2) ricorso alle verità naturali note a tutti gli uomini, che sono le verità del senso comune (cf. pp. 83-84). 


Una conclusione teologica non può contraddire né le verità del senso comune né il nucleo dogmatico da cui principia. Molto spesso mancano entrambi i principi e la costruzione risulta completamente falsata. Di conseguenza, non è più teo-logia quella in cui Gesù è ridotto ad un uomo migliore; quella in cui la Chiesa è una proiezione storica di un ideale di potere, che finisce col soppiantare il desiderio semplice del Regno e del Vangelo; quella dove lo stesso Vangelo è solo tante interpretazioni, fino a confondere il Gesù rivelato con i nostri tentativi di individuarne la sua esistenza. 


3. Gli errori di metodo 

Stranamente ma in modo sempre più preponderante assistiamo oggi a una relativizzazione del dato rivelato contro un’assolutizzazione dell’interpretazione teologica, segno che sono stati indebitamente scambiati i principi della logica aletica con quelli dell’esistenza mutevole e del cangiare della storia. Livi individua così tre errori fondamentali che relativizzano il dato dogmatico: 

1) l’oltrepassamento del limite ermeneutico, adottando categorie gnoseologiche della scuola ermeneutica gadameriana, fino a postulare una ri-compresione della verità. A giudizio dei sostenitori di questo oltrepassamento della metafisica classica, «la comprensione della verità non può essere ridotta a un modello esclusivo, come quello del paradigma classico dell’adaequatio, ma deve essere pensata e considerata nelle sue sfumature più ampie e dinamiche, comprese quelle che, per l’inadaequatio verbis [sic], sfociano nelle definizioni simboliche e “poetiche”» (p. 198); 

2) la negazione implicita del carattere soprannaturale e gratuito della rivelazione soprannaturale. Qui troviamo ad esempio Rahner con il suo a priori gnoseologico e al contempo informato dalla grazia (gnadenhaftigkeit) e il pancristismo evoluzionista di Teilhard de Chardin; 

3) infine l’adozione di categorie gnoseologiche che pregiudicano il carattere razionale dell’atto di fede nei misteri rivelati. Livi critica il fideismo teologico che consegue all’adozione di filosofie irrazionalistiche del Novecento, soprattutto quelle della scuola fenomenologica di Husserl e quelle dello sviluppo del pensiero heideggeriano nella scuola ermeneutica: Gadamer, Ricoeur e Vattimo. 


Le teologie aggiornate secondo questi criteri, che rifiutano il realismo scolastico, sfociano spesso in due tipi di dialogo ritenuto possibile dalla parte non credente: «o relegando la fede nell’irrazionale, inteso come superstizione perniciosa o almeno come credenza culturalmente irrilevante (questa è la posizione dei neorazionalisti come Flores d’Arcais o Severino), oppure sussumendo la fede nella filosofia in quanto anch’essa fondata su categorie irrazionalistiche e avvezza a rivestire queste categorie con termini desunti dal linguaggio teologico cristiano, quali appunto “fede” e “rivelazione” […]» (pp. 224-225). 

L’equivoco di fondo è ritenere, però, sia dalla parte dialogante non credente che da quella teologica credente che «la fede nella rivelazione non è un sapere e se anche fosse un sapere non sarebbe razionalmente giustificabile» (p. 224). 
La teologia diventa sovente "apofatica", ma solo perché non può dir più nulla di Dio e del mistero. 
Tutto ciò non deve dirci qualcosa oggi quando a più riprese si dice che la fede non è un contenuto dogmatico-dottrinale ma solo l’incontro con Gesù? Tante metodologie catechetiche non sono forse impiantate esclusivamente sulla presentazione della fede come esperienza, come raffigurazione estetica e immaginifica del Signore e dei misteri, più che sulla Parola di verità e di vita rivelata, che diventa incontro vivo col Signore solo nella misura in cui è comprensibile e perciò traducibile in vita vissuta? 

Questo pregevole manuale di Mons. Antonio Livi è un’occasione propizia per poter iniziare l’Anno della Fede, ponendosi i veri problemi che oggi attanagliano la sua professione cattolica, piegandola spesso ad un policromo soggettivismo, dipendente spesso se essa è predicata da un sacerdote, da un operatore pastorale, da un semplice laico, da una suora, o talvolta da un prelato. In questo volume abbiamo i riferimenti precisi e argomentati per ridonare alla fede la sua freschezza, attualità e perennità. La sua bellezza unita alla sinfonia che emerge se, nella fede di sempre, si legge la Scrittura si ascolta la Tradizione e ci si lascia guidare dalla Chiesa. 

p. Serafino M. Lanzetta, FI



La presente recensione all'ultima opera di Mons. Livi è stata pubblicata anche sui siti dell'Autore:  



Il 31 maggio 2012 il libro è stato presentato a Firenze, nella Chiesa dei SS. Michele e Gaetano. Oltre all'Autore sono intervenuti il P. Giovanni Cavalcoli, il Prof. P. De Marco e il P. Serafino M. Lanzetta. Su YouTube è stata pubblicata la registrazione video della serata: vedi qui e poi di seguito le altre parti.

mercoledì 6 giugno 2012

Parlare della famiglia partendo da Dio: con Lui o senza di Lui tutto cambia





Ci sono anche i genitori di P. Stefano M. Manelli tra le testimonianze di “straordinaria normalità” che questo libro – “Dio&famiglia. Analisi di una dissoluzione” (Ed. Fede&Cultura, pag. 125, € 10) - propone di fronte ad una mondo che ormai ha un concetto piuttosto allargato e confuso di matrimonio e di famiglia.
I nuovi maestri del dubbio, infatti, vorrebbero che l’essere maschio o femmina fosse una semplice questione di gusti, di cultura, indipendentemente da quello che il corpo dice apertamente. Sembra che i Fratelli e le Sorelle del Libero Spirito, setta gnostica del periodo a cavallo tra basso e alto medioevo, abbiano sparso la loro gnosi come fenomeno di massa.
Questo è quello che si scopre, pagina, dopo pagina, nella serrata analisi che Lorenzo Bertocchi, autore del libro, compie per descrivere cosa è accaduto al rapporto tra Dio e famiglia, minato alla radice da una rivoluzione come quella degli anni ’60-’70. Questa rivoluzione di carattere culturale ha finito per ridurre l’uomo alla mercé delle proprie passioni e sentimenti, una scissione profonda di anima e corpo che, a livello popolare, si è realizzato soprattutto sotto i colpi violenti della moda, del cinema, dei libri, dei giornali. Uno stile di vita si è insinuato nel quotidiano con un obiettivo molto più profondo di quello che apparentemente può sembrare: ri-creare l’uomo per dissolvere il suo legame con il Creatore.
Abbiamo assistito ad un attacco su due fronti, contro Dio e contro l’uomo, ma questo libro punta lo sguardo sulla famiglia per dire che l’eclissi di Dio si è consumata attaccando i focolari domestici. Decostruita la famiglia nel suo intimo non resta altro che il “proprio io e le sue voglie”, perché mancando la culla delle virtù l’uomo resta semplicemente in balia dei suoi limiti e del potere di turno. Non considerare questa profonda eclissi di Dio e dell’uomo significa vanificare ogni altro discorso sulla famiglia, anche perché ormai non ci si intende più nemmeno sul significato del termine: infatti, per alcuni il concetto di famiglia sarebbe talmente “liquido” da comprendere anche coppie dello stesso sesso. O la famiglia è quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna aperti al dono della vita, alla generazione dei figli, oppure non solo non c’è più la famiglia, ma declina altresì sempre più lo stesso essere sociale dell’uomo, fino a ridursi a mera cosa.
Come scrive Mons. Lugi Negri nella prefazione del libro, oggi “non c’è più posto per la famiglia come non c’è più posto per la Chiesa perché esse indicano, in una società come quella di oggi, un mondo diverso, un mondo totalmente diverso, retto da un’immagine d’uomo diversa, retto da una concezione diversa della vita, dei rapporti fra gli uomini e dell’amore dell’uomo per la donna. Insomma la famiglia rende presente un mondo che la mentalità dominante non può sopportare.”
Nella seconda parte del libro troviamo proprio degli esempi concreti di cosa voglia dire questa scandalosa normalità invisa al mondo. Oltre ai coniugi Manelli vengono, infatti, narrate altre testimonianze di sposi che hanno messo Dio, Uno e Trino, al centro della loro vita. I Beati Beltrame Quattrocchi, i beati Martin, i coniugi Bernardini, Amendolagine e Gheddo, sono le altre coppie che, insieme a Settimio e Licia Manelli, offrono tutta la loro quotidianità senza particolari clamori, a parte un fattore fondamentale: quello di Dio, perché “con Dio o senza Dio, tutto cambia”.
Così “Dio&famiglia. Analisi di una dissoluzione” non è soltanto un libro per famiglie, ma è anche un punto di vista sulla crisi sociale e sulla crisi di fede. Grazie infine a queste coppie di beati e servi di Dio è un itinerario spirituale per chi vive la vocazione al matrimonio.

p. Serafino M. Lanzetta, FI