L’opera di Mons. Antonio Livi che ha visto da poco la luce, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa” (Leonardo da Vinci, Roma 2012), si propone un servizio davvero indispensabile alla teologia oggi, quando un grande marasma d’idee, spesso contraddittorie e negantesi a vicenda, finisce col lasciare la stessa scienza della fede nell’incertezza, nel pluralismo, purtroppo anche nel dubbio circa i misteri della fede. Potrebbe darsi che la fede si sia smarrita e che la Chiesa si confronti con una grave crisi nel suo interno anche perché gran parte della teologia cattolica odierna ha sostituito l’approccio epistemico veritativo al dogma con una ragione chiusa a Dio, e intenta unicamente al soggetto uomo? Forse che alla ragione capace della verità e dell’eternità abbiamo sostituito la problematicità dell’essere degli essenti? Sì, di qui nasce il problema anche della fede, senza più saper come uscire dal vuoto che ci attanaglia e senza saper dare più una risposta di senso alla rivelazione di Dio.
Livi denuncia – da molti anni ormai – lo smarrimento del senso comune, ovvero di quelle verità evidentissime che sono il presupposto di ogni sana logica; negarle equivarrebbe a rinunciare al pensiero filosofico oggettivo; negarle ha effetti dirompenti poi anche in teologia: comporta un allontanarsi da ciò che è dato, dal dogma della fede, così che, col pretesto di insegnare la fede in modo nuovo, si finisce col dire cose completamente nuove o di negare (almeno implicitamente) quanto Dio ha rivelato. Vera e falsa teologia è un giudizio sui presupposti che devono animare la scienza della fede, dunque la vera teologia e al contempo smascherare quella che invece è soltanto un’“equivoca filosofia religiosa”, perciò una falsa teologia. Digerire nel contesto odierno i due aggettivi, “vera e falsa”, applicati alla teologia non è certo facile, né assonante con la metodologia del pluralismo. Rimane tuttavia un compito importante distinguere il vero dal falso per non rischiare di trasformare la fede in una vaga credenza. Bisogna ripartire dalla realtà, nel nostro caso dalle verità di fede credute e perciò, di conseguenza, lette con acribia e metodo nel loro intimo per un’esposizione razionale, armonica e convincente. Entriamo così nel merito dell’opera, presentandone i passaggi salienti.
1. Una doppia crisi che investe la Chiesa annodata a un solo problema
È opportuno partire da un giudizio che Livi dà sull’ultimo scorcio della storia, riassumente in modo vistoso gli imperativi della modernità. Si delinea un passaggio significativo che evoca una doppia crisi: «dal modernismo del primo Novecento alla cosiddetta teologia post-conciliare». C’è una continuità che lumeggia due movimenti interrelati, e sebbene distinti, fortemente influenzantisi a circa un secolo di distanza: il modernismo, fondamentalmente basato sull’evoluzione della verità, a sua volta declinato in modo razionalistico secondo Hegel e irrazionalistico o sentimentalistico secondo Schleirmacher, e il neo-modernismo, presentato talvolta anche come “teologia post-conciliare” (perché una teologia post-conciliare, che necessariamente problematizza quella pre-conciliare? Il concilio era capace di dare vita a una nuova teologia?). In questo secondo movimento dell’epoca moderna si fa un costante riferimento alla rivelazione cristiana con un’esplicita esclusione da essa della dimensione dottrinale e veritativa su Dio, sul mondo e sull’uomo. Si riduce la rivelazione alla comunicazione di eventi mediante le parole, ma non più illuminati dai contenuti di fede, ritenuti fissisti o paralizzanti l’esperienza di Dio. Si pone scorrettamente in alternativa la dimensione noetica e dinamica della Parola di Dio.
Scrive Livi: «L’errore metodologico di fondo della cosiddetta “teologia conciliare” – rilevabile ogni qual volta essa presenta i propri orientamenti come la “nuova teologia” del Vaticano II – è il riferimento alla rivelazione cristiana con l’esplicita esclusione della sua dimensione di dottrina, ossia di verità su Dio, sul mondo e sull’uomo» (p. 270). Spesso oggi si parla di fede come incontro, come esperienza, ma senza il suo costitutivo dottrinale oggettivo. Questo lo si assorbe semplicemente nel momento soggettivo dell’atto di fede, che però può facilmente scadere in una fede fideistica. Per Livi, come ha denunciato già in precedenza, il grande problema oggi è il fideismo, che nasce da un nuovo orientamento metodologico: l’assorbimento della fede nella storia. Ciò che accomuna i teologi della discontinuità, che vedono il Concilio Vaticano II come il grande spartiacque della fede e della stessa teologia, è l’ideologia del progressismo storicistico, denominato anche “neo-modernismo”. Dal fatto che la «rivelazione non ha potuto essere altro che la coscienza acquisita dall’uomo della sua relazione con Dio» – proposizione di A. Loisy, condannata nel decreto Lamentabili (n. 20) –, facilmente si passa a considerare il Magistero stesso e la fede da esso portata come un semplice evento, attuabile di volta in volta per ritrovare una coscienza accresciuta dell’essere Chiesa e del credere cristiano. I dogmi vengono superati non mediante una semplice e oggettiva negazione ma attraverso una plurima coscienza di sé, capace di dare alla stessa fede una nuova identità, più consona ai tempi, al mondo. Si prenderà quello che è più conforme allo Zeitgeist e, tacendo ciò è dogmatico e irreformabile, di fatto lo si ignora. Oggi molti dogmi non vengono negati ma semplicemente ignorati, dimenticati e così superati.
Una duplice crisi dunque, la quale, a giudizio di Livi, si annoda a un problema fontale d’errato approccio epistemologico alla modernità o “mondo moderno”. In molti teologi che hanno perseguito l’aggiornamento rifiutando spesso la metafisica perché scienza immobilista e incapace di dialogo, la categoria “mondo moderno” viene assunta più che come dato cronologico come a priori filosofico, e oltretutto come un’unità di pensiero chiusa al trascendente, che necessita di conseguenza un confronto al di là della metafisica, o senza di essa (al di là di Dio?). Si fa così della modernità un pensiero unico e omogeneo. Si assume come a priori il razionalismo che da Cartesio attraverso Kant arriva ad Hegel e poi ad Heidegger, ma si scarta ad esempio l’empirismo o la filosofia cristiana di Giambattista Vico. Perché Rahner, ad esempio, tenterà il dialogo con la modernità superando S. Tommaso con Kant e poi con Heidegger? Non tutto è riconducibile a Cartesio. In realtà, «il “mondo moderno” è un dato meramente cronologico, da interpretare come si vuole o come si può, sempre però con gli strumenti umani di conoscenza della realtà nella quale si vive, strumenti che non consentono la formulazione di una ragionevole concezione unitaria di quelle che sono le realtà del mondo in una determinata epoca (lo impediscono infatti l’eterogeneità dei fenomeni culturali rispetto a quelli propriamente religiosi, ma soprattutto l’estrema complessità della realtà sociale, irriducibile a una sola categoria interpretativa) [p. 260].
Per Livi, perciò, non esiste un “mondo moderno” con il quale la Chiesa deve confrontarsi per ragioni ecclesiologiche dipendenti dalla sua natura divino-umana. Assumere acriticamente come teologico – il dibattersi del “mondo moderno” alla ricerca di Dio nei meandri dell’esistenza – ciò che teologico non è, è all’origine di molte confusioni dottrinali odierne (cf. Ibid.). Per di più, questo tentativo che rimane filosofico può e deve essere necessariamente relativizzato partendo di nuovo dall’evidenza di quel common sense.
2. Il metodo di Livi
Veniamo così alla metodologia seguita da Mons. Livi, che contraddistingue questo eminente filosofo in una tutta la sua speculazione sul “senso comune”, volta a illuminare quelle verità evidentissime e prime senza le quali nessun discorso è possibile, nessun’altra conclusione è valida. Il senso comune è costituito da giudizi sulla realtà privi però di presupposti: corrispondono a evidenze non mediate e sono essi stessi premesse o condizioni di possibilità per la conoscenza. Livi ne individua cinque, che racchiudono poi tutti gli altri eventuali giudizi sulla realtà, da essi comunque principianti:
1) il mondo come movimento di cose (apparire, divenire, scomparire, ecc.);
2) l’io come soggetto conoscente (autocoscienza);
3) gli altri a me simili (intersoggettività);
4) la legge morale naturale quale fondamento oggettivo del rapporto con gli altri, che trascende le leggi fisiche poiché aperto alla libertà e alla responsabilità;
5) Dio come causa prima e fine ultimo (dalla contingenza all’Assoluto).
Bisogna pure ravvisare i principi evidentissimi di ordine logico, quali il principio d’identità e di non contraddizione, che spostano l’accento del senso comune dall’ontologia alla logica, da Livi definita “aletica”, perché poggiante sulla verità.
Se voglio conoscere le cose, il mondo, non posso ignorare queste verità evidentissime alle quali in definitiva devo ricondurre tutti gli eventuali giudizi filosofici e teologici. La rivelazione soprannaturale non elimina le verità prime immesse dal Creatore nella creazione e rispecchianti l’ordine e l’intelligenza di Dio, piuttosto le rafforza e le presuppone. Di qui Livi muove e compie un passaggio: come nell’ambito naturale tutti i giudizi devono essere ricondotti alle verità prime del senso comune, così nell’ambito soprannaturale tutti i sistemi teologici, e cioè tutte le formulazioni scientifiche come ipotesi per spiegare la fede rivelata, devono principiare ed essere perciò ricondotte alle verità primissime soprannaturali che sono i dogmi della fede, la Parola di Dio come proposta infallibilmente dalla Chiesa. Il teologo deve partire dalle verità rivelate e in queste specchiare l’intero suo sistema. Il sistema teologico e lo stesso principio architettonico può variare in ragione della sensibilità e della scelta del teologo, ma il punto di partenza non è sottoponibile a scelta, alla sensibilità di chi vi si accosta: il punto di partenza è il Dio rivelatosi, così come rivelatosi secondo il canone della Tradizione della Chiesa. Pertanto, le tesi formulate in teologia, analogamente a quanto avviene in filosofia, possono esibire una pretesa di verità solo se risultano conformi alla “prime verità”, che costituiscono il dogma della Chiesa (cf. p. 8).
Quindi è necessario, per argomentare così in filosofia come in teologia, far uso del metodo della presupposizione. Si tratta di risalire ai fondamenti aletici da tutti condivisibili: in filosofia con la ragione naturale e in teologia con la fede, quali condizione di possibilità di una determinata asserzione o giudizio, e allo stesso tempo, quali possibilità assoluta della conoscenza per inferenza, che è propriamente filosofico-razionale, o di quella per testimonianza, che è la conoscenza per mezzo della fede. Il metodo della presupposizione consente allora in teologia di verificare se un determinato discorso sulla dottrina della fede presuppone i dogmi come verità rivelate o se invece li assume, al dire di Livi, come espressione imperfetta e mutevole di una verità umana. Nel primo caso abbiamo una “vera teologia”, nel secondo una mera “filosofia religiosa”. Facciamo qualche esempio tra i molti. Non si può fare del dogma della impassibilità di Dio, appurato dalla ragione e difeso contro il patripassianismo o della sofferenza del Padre, contro Sabellio o della sofferenza dello Spirito Santo e contro il teopaschismo o della sofferenza e morte di Dio stesso, un semplice modus loquendi tale da poter essere superato in una nuova teologia dell’amore di Dio. Qui Dio sarebbe capace di accettare anche la sofferenza, e la Croce del Figlio sarebbe il momento propizio dell’ingresso del dolore in Lui in quanto Dio. Una teologia che, sebbene con parole poetiche e affascinanti, introduce in definitiva il mistero del male (almeno morale) in Dio stesso, nonostante le buone intenzioni di presentare un Dio più vicino, finisce semplicemente col negarlo. Se anche Dio soffre chi redimerà la nostra sofferenza? Una vera teologia deve presupporre la verità di Dio. Deve avvicinare il suo mistero con una sana ragione filosofica, evitando di incorrere nella contraddizione logica del soffrire o poter soffrire, ponendo in alternativa verità e carità, e quindi ultimamente deve essere ricondotta al mistero semplice e sublime della Redenzione di Cristo come rivelata da Dio e trasmessa ininterrottamente dal Magistero: solo Cristo ha sofferto nella sua umana natura e nel tempo della sua passione e questo per liberarci dal peccato e donarci la vita eterna.
La fede, in fondo, è radicata su un asserto semplice e universale: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Il cristianesimo è accessibile ad ogni uomo perché coniugazione di fede e ragione. Questi poi senza mediazioni scientifiche può cogliere il contenuto della verità divina, universalmente valida e racchiusa in ogni formula dogmatica. Ciò che è incoraggiante è il fatto che anche il più grande sistema teologico è pur sempre “falsificabile” dal sensus fidei del più semplice cristiano. Il rivestimento dogmatico e infallibile di una data verità rivelata non è un involucro esterno, quasi una “protezione” voluta dalla Chiesa ma l’esplicitazione irreformabile di un nucleo che è racchiuso nella S. Scrittura e nella S. Tradizione, custodite e trasmesse dal Magistero.
La teologia come scienza della fede e sua intelligenza, partendo dalle verità rivelate, si basa pertanto fondamentalmente su due criteri ermeneutici degli enunciati dogmatici:
1) l’individuazione del nucleo dogmatico attraverso Scrittura-Tradizione e Magistero;
2) ricorso alle verità naturali note a tutti gli uomini, che sono le verità del senso comune (cf. pp. 83-84).
Una conclusione teologica non può contraddire né le verità del senso comune né il nucleo dogmatico da cui principia. Molto spesso mancano entrambi i principi e la costruzione risulta completamente falsata. Di conseguenza, non è più teo-logia quella in cui Gesù è ridotto ad un uomo migliore; quella in cui la Chiesa è una proiezione storica di un ideale di potere, che finisce col soppiantare il desiderio semplice del Regno e del Vangelo; quella dove lo stesso Vangelo è solo tante interpretazioni, fino a confondere il Gesù rivelato con i nostri tentativi di individuarne la sua esistenza.
3. Gli errori di metodo
Stranamente ma in modo sempre più preponderante assistiamo oggi a una relativizzazione del dato rivelato contro un’assolutizzazione dell’interpretazione teologica, segno che sono stati indebitamente scambiati i principi della logica aletica con quelli dell’esistenza mutevole e del cangiare della storia. Livi individua così tre errori fondamentali che relativizzano il dato dogmatico:
1) l’oltrepassamento del limite ermeneutico, adottando categorie gnoseologiche della scuola ermeneutica gadameriana, fino a postulare una ri-compresione della verità. A giudizio dei sostenitori di questo oltrepassamento della metafisica classica, «la comprensione della verità non può essere ridotta a un modello esclusivo, come quello del paradigma classico dell’adaequatio, ma deve essere pensata e considerata nelle sue sfumature più ampie e dinamiche, comprese quelle che, per l’inadaequatio verbis [sic], sfociano nelle definizioni simboliche e “poetiche”» (p. 198);
2) la negazione implicita del carattere soprannaturale e gratuito della rivelazione soprannaturale. Qui troviamo ad esempio Rahner con il suo a priori gnoseologico e al contempo informato dalla grazia (gnadenhaftigkeit) e il pancristismo evoluzionista di Teilhard de Chardin;
3) infine l’adozione di categorie gnoseologiche che pregiudicano il carattere razionale dell’atto di fede nei misteri rivelati. Livi critica il fideismo teologico che consegue all’adozione di filosofie irrazionalistiche del Novecento, soprattutto quelle della scuola fenomenologica di Husserl e quelle dello sviluppo del pensiero heideggeriano nella scuola ermeneutica: Gadamer, Ricoeur e Vattimo.
Le teologie aggiornate secondo questi criteri, che rifiutano il realismo scolastico, sfociano spesso in due tipi di dialogo ritenuto possibile dalla parte non credente: «o relegando la fede nell’irrazionale, inteso come superstizione perniciosa o almeno come credenza culturalmente irrilevante (questa è la posizione dei neorazionalisti come Flores d’Arcais o Severino), oppure sussumendo la fede nella filosofia in quanto anch’essa fondata su categorie irrazionalistiche e avvezza a rivestire queste categorie con termini desunti dal linguaggio teologico cristiano, quali appunto “fede” e “rivelazione” […]» (pp. 224-225).
L’equivoco di fondo è ritenere, però, sia dalla parte dialogante non credente che da quella teologica credente che «la fede nella rivelazione non è un sapere e se anche fosse un sapere non sarebbe razionalmente giustificabile» (p. 224).
La teologia diventa sovente "apofatica", ma solo perché non può dir più nulla di Dio e del mistero.
Tutto ciò non deve dirci qualcosa oggi quando a più riprese si dice che la fede non è un contenuto dogmatico-dottrinale ma solo l’incontro con Gesù? Tante metodologie catechetiche non sono forse impiantate esclusivamente sulla presentazione della fede come esperienza, come raffigurazione estetica e immaginifica del Signore e dei misteri, più che sulla Parola di verità e di vita rivelata, che diventa incontro vivo col Signore solo nella misura in cui è comprensibile e perciò traducibile in vita vissuta?
Questo pregevole manuale di Mons. Antonio Livi è un’occasione propizia per poter iniziare l’Anno della Fede, ponendosi i veri problemi che oggi attanagliano la sua professione cattolica, piegandola spesso ad un policromo soggettivismo, dipendente spesso se essa è predicata da un sacerdote, da un operatore pastorale, da un semplice laico, da una suora, o talvolta da un prelato. In questo volume abbiamo i riferimenti precisi e argomentati per ridonare alla fede la sua freschezza, attualità e perennità. La sua bellezza unita alla sinfonia che emerge se, nella fede di sempre, si legge la Scrittura si ascolta la Tradizione e ci si lascia guidare dalla Chiesa.
p. Serafino M. Lanzetta, FI
La presente recensione all'ultima opera di Mons. Livi è stata pubblicata anche sui siti dell'Autore:
Il 31 maggio 2012 il libro è stato presentato a Firenze, nella Chiesa dei SS. Michele e Gaetano. Oltre all'Autore sono intervenuti il P. Giovanni Cavalcoli, il Prof. P. De Marco e il P. Serafino M. Lanzetta. Su YouTube è stata pubblicata la registrazione video della serata: vedi qui e poi di seguito le altre parti.
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