«Dipinse Giotto a’ Frati Umiliati d’Ognissanti di Firenze una cappella e quattro tavole; e fra l’altre, in una la Nostra Donna con molti Angeli intorno e col Figliuolo in braccio, ed un Crocifisso grande in legno…». Questa la notevole testimonianza del Vasari sulle due opere di Giotto dipinte per Ognissanti: la Maestà (la Madonna in trono col Bimbo sulle ginocchia, ora agli Uffizi) e il Crocifisso, che ora, dopo dieci anni di attento ed intelligente restauro, è tornato nella nostra chiesa. Ognissanti s’impreziosisce così di un altro gioiello – accanto a Botticelli e Ghirlandaio –, di cui ora risulta in primis la mano del Maestro di Vicchio, certo ed inevitabilmente insieme alla sua bottega, ma la mano di Giotto. Dipinto in un arco di tempo che va grossomodo dal 1310 al 1320, il Crocifisso fu realizzato dietro commissione degli Umiliati, per fungere, sul tramezzo eretto a modo d’iconostasi e separante l’altare del santo sacrificio dai fedeli, da elemento indicatore del retto orientamento della preghiera e della dimensione cosmica della liturgia. Con la nuova collocazione, nella Cappella dei caduti del transetto sinistro, su in alto, si è voluto richiamare la sua antica posizione: lasciata in alto, quasi sospesa tra la terra e il cielo, la Croce ci rammenta il mistero tremendo e glorioso della passione, morte e risurrezione di Cristo. Questo mistero, che il Cristianesimo definirà sin da subito Mysterium paschale, è scolpito in quel duro Legno, che Giotto fa splendere di una vivezza unica. Il Signore aveva infatti detto: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Il Signore Crocifisso esercita da quel Legno un potere d’attrazione, un giudizio di verità e d’amore sull’uomo, un giudizio che con Giotto potremmo compendiare così: il fascino del Bello, compendio dell’unità, della verità e dell’amore. Sì, guardando questo Crocifisso, tra le righe dell’arte pittorica s’esprime una potenza d’attrazione che induce alla riflessione: chi è quell’Uomo? E al contempo: nuovamente la Croce?
Con Giotto si delinea una svolta molto interessante: dall’arte iconica bizantina attraverso una lettura propriamente occidentale duecentesca – si pensi a Giunta Pisano e a Cimabue –, si inizia a mettere in rilievo la figura, il corpo umano. Con Giotto, il Crocifisso mentre riassume lo splendore dell’icona, appare però anche nella sua maestà umano-divina, ch’evidenzia con delicato chiarore la corporeità del Cristo, sì da farlo apparire vivo. Il Crocifisso così doveva risultare la più eminente catechesi per confutare l’eresia perniciosa del catarismo, sprezzante il corpo per rifugiarsi nei meandri di una spiritualizzazione egocentrica della materia. Non più un uomo di anima e di corpo, ma un uomo semi-divino, con un’anima spirituale capace di dominare il corpo fino a svilirlo, a ridurlo ad oggetto. Oggi purtroppo ritorna questo modo di pensare, che riduce il corpo a mera apparenza, ad un guscio vuoto. Si è liberi anche di “interpretare” il proprio corpo, con il rischio però di diventare noi stessi cosa, un semplice oggetto. La Croce del Signore, invece, è il manifesto che esalta il corpo dell’uomo, dandogli la vera dignità di tempio di Dio. Cristo ci ha redenti con il sacrificio del suo corpo: «Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: “Ecco io vengo” (Sal 39,7-8; cf. Eb 10,6-7).
Dalla Croce Cristo ci parla, è il Maestro. In una meravigliosa incastonatura policroma, nel dipinto giottesco, assieme all’Attore della Passione, compaiono immediatamente a Lui vicino, la Madonna e S. Giovanni, mentre nel quadrilobo in alto, Gesù Maestro benedicente. L’insieme appare un tutto armonico e teologico, dove Gesù crocifisso, dolorante ma maestoso, compassionevole e regale, è il vero punto focale: la Croce porta il Signore e il Signore si rivela dall’alto della Croce.
Basti fissare il volto del Cristo. È un volto soffuso di splendore, in un atteggiamento d’immane sofferenza, ma una sofferenza composta, affrontata con grande dignità. Il Signore è il Servo di YHWH, «disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima» (Is 53,3). Ma quel volto è anche il volto del «più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 44,3). Giotto riesce ad armonizzare questi due dati: la sofferenza vera e non apparente, con lo splendore di Colui che pur essendo Dio si è abbassato, si è umiliato (cf. Fil 2,6-8), ed ora è confitto, ma è cosciente che attraverso quel suo dolore, sorgerà per l’umanità intera un’alba nuova di salvezza e di libertà. «Per le sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53,5). Per il suo sangue siamo stati lavati, siamo divenuti figli e col Figlio ora possiamo chiamare Dio col nome di Padre. La sua Croce ci ha reso figli di Dio in virtù dello Spirito che ci fa gridare «Abbà Padre!» (Rom 8,14). Quello Spirito che fa unità col Sangue. Acqua e Sangue, fluenti dal costato trafitto del Redentore, e lo Spirito dal suo soffio vitale, così da preparare i Sacramenti della Chiesa, impastati col suo Sangue e resi vivificanti dal suo Spirito. È impressionante osservare il sangue che esce dal costato trafitto del Crocifisso. Giotto accentua questo elemento dipingendo uno spruzzo rosso, che promana dall’Uomo dei dolori, una sorgente zampillante che irriga la Croce e lava. Così si richiama propriamente a Giovanni, il quale lega in altissima unità gli elementi dell’acqua e del sangue che scaturiscono dal cuore di Cristo con la sorgente zampillante che uscirà dal seno di coloro che crederanno in Lui, nel Figlio che solo dà la vita (cf. Gv 19,34 in relazione a 7,37).
Ora il Signore innalzato esclama ancora una volta, rivolto a tutti i visitatori: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me, come dice la Scrittura: fiumi d’acqua viva usciranno dal suo seno» (Gv 7,37-38).
Andare a Cristo allora significherà conoscere il suo amore, bere di Lui, accostarsi al memoriale del suo sacrificio, ripresentato sacramentalmente nella celebrazione della S. Messa. L’Eucaristia è quel memoriale: ripresenta l’unico e sommo sacrificio del Signore e ci dona la vita, quando umili e contriti ci accostiamo a Lui, mangiando di Lui. La Croce è quella scala che ci fa salire fino a Cristo. Dalla Croce e solo attraverso di essa si entra in comunione con Lui. Ecco perché, come chiede il Santo Padre, il Crocifisso deve essere ben visibile nella celebrazione dei Santi misteri. Deve essere al centro dell’altare, in modo che celebrante e fedeli vi volgano i loro sguardi. Solo chi guarda questo segno di salvezza è salvato, è redento dal morso del male e dalla morte.
Accanto al Signore Crocifisso, Giotto ha voluto mettere in risalto particolarmente la Vergine Madre, ammantata di quell’azzurro che riprende il fondo della Croce ed esprime un fatto: Maria prima di tutti e sopra tutti è avvolta dalla trascendenza e dal mistero. Il suo dolore di Madre, ben visibile nel suo volto compassionevole, è il dolore di Colei che è la Compagna fedelissima di Cristo, l’alma Socia Christi nel mistero della Redenzione. Con Gesù Maria ha collaborato in modo unico alla nostra rigenerazione soprannaturale. A Lei chiediamo di introdurci per mezzo della Croce nel mistero dell’amore di Dio: per Crucem ad lucem.
Vedendo quella folla accorsa il giorno 28 ottobre per il ritorno della Croce ad Ognissanti, pensavo tra me: «Non riusciranno a toglierci la Croce. Neanche la Corte di Strasburgo. La Croce ritorna sempre». Ora nel modo più aureo: quello della bellezza. Ed interroga ogni uomo.