Offriamo ai lettori un'ampia recensione di p. Serafino M. Lanzetta, sull'ultima opera del Card. W. Kasper, dedicata alla misericordia, concetto chiave del vangelo e della vita cristiana.
È da salutare con grande interesse lo
sforzo teologico del card. Kasper di rimettere il tema della misericordia di
Dio non solo al centro della predicazione e della pastorale della Chiesa, ma
soprattutto al centro della riflessione teologica. Nel suo recente libro sulla
misericordia, apparso in tedesco nel 2012 e poi tradotto in italiano per i tipi
della Queriniana (Giornale di Teologia 361) nel 2013, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo - Chiave della vita,
il cardinale tedesco, per lunghi anni presidente del Pontificio Consiglio per
l’Unità dei Cristiani, parte da un’amara constatazione: la misericordia, la
quale occupa un posto centrale nella Bibbia, è difatti caduta completamente in
oblio nella teologia sistematica, trattata solo in modo accessorio. O non
occupa un posto centrale nei manuali di teologia sistematica fino alle soglie
degli anni 1960, o addirittura manca del tutto in quelli recenti. Se vi
compare, occupa un posto del tutto marginale. Nonostante che il pontificato di
Giovanni Paolo II avesse dato un grande impulso alla riscoperta della
misericordia, come tema teologico e spirituale, grazie soprattutto alla Santa
polacca, S. Faustina Kowalska, e che Benedetto XVI ne avesse fatto, in un certo
modo, la sua direttrice, con la prima enciclica sull’amore, Deus caritas est, il tema rimane ancora
nascosto nel suo potenziale sviluppo per la teologia e quindi per la vita
cristiana. Il nostro cardinale, dunque, in questo suo testo, di cui ci occuperemo
(5a ed. it. del 2014), raccoglie questa sollecitazione, e presenta a
livello sistematico il tema della misericordia di Dio.
Una
giustizia che si ritrae nella misericordia?
La misericordia è una medicina
indispensabile, è l’ingrediente che purtroppo manca, ma che a ben guardare
rappresenta l’unica vera risposta agli ateismi e alle ideologie così perniciose
del XX secolo. Come annunciare di nuovo un Dio, di cui, dopo Auschwitz, faremmo
solo meglio a tacerne l’esistenza? Storicamente, a giudizio di Kasper,
suffragato da O.H. Pesch, «l’idea di un
Dio castigatore e vendicativo ha gettato molti nell’angoscia a proposito della
loro salvezza eterna. Il caso più noto e foriero di gravi conseguenze per la
storia della chiesa è il giovane Martin Lutero, che fu per lungo tempo
tormentato dalla domanda: “Come posso trovare un Dio benigno”, finché egli un
giorno riconobbe che, nel senso della Bibbia, la giustizia di Dio non è la sua
giustizia punitiva, ma la sua giustizia giustificante e, quindi, la sua misericordia.
Su di ciò, nel XVI secolo la Chiesa si divise» (p. 25), e così da quel
momento, il rapporto giustizia e misericordia divenne una questione centrale
della teologia occidentale.
Il nostro cardinale preferisce non
entrare nel tema della giustificazione secondo Lutero, solo la loda (come farà
poi anche alle pp. 121.137), anche se ci sarebbero molte cose da dire, una tra
tutte: la misericordia giustificante è vista dal riformatore tedesco non come
perdono ontologico, come integra riconciliazione dell’uomo con Dio, nella
verità e nella giustizia, ma come un essere semplicemente rivestiti dei meriti
di Cristo (non dell’uomo), quindi in un intrinseco rimanere peccatori seppur
dichiarati giusti. Questa è misericordia di Dio? Dove l’uomo rimane inficiato
non solo del vulnus della
concupiscenza, ma dalla stessa sporcizia del peccato, pur essendo giusto? Giusti
nei peccati? Su questo il card. Kasper si mostra benevolo sorvolando,
riferendosi solo allo sforzo immane fatto da ambo le parti, quella cattolica e
quella luterana, di trovare un consenso fondamentale sulla dottrina della
giustificazione con la Dichiarazione
ufficiale comune sulla dottrina della giustificazione, del 31 ottobre 1999,
che vedeva attori la Federazione Luterana Mondiale e la Chiesa Cattolica,
rappresentata dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, presieduto
dal nostro cardinale (cf. p. 26). A questa Dichiarazione, seguita alla Dichiarazione congiunta del 1997, era
stato necessario premettere, nel 1998, una Risposta
ufficiale cattolica (elaborata di
comune intesa tra la CDF e il PCUC, ma firmata solo da quest’ultimo), rimanendovi
comunque una visione protestante non conciliabile con quella cattolica, nel tentativo
ecumenico di non considerare più le condanne di Trento come divisive per le
chiese.
In ogni caso Kasper è cosciente, nel suo
libro, di un assunto: dobbiamo tirar fuori la misericordia «dalla sua esistenza di cenerentola, in cui
essa era caduta nella teologia tradizionale» (p. 26). Certamente
misericordia non è una visione sdolcinata di Dio, di un Dio possibilista verso
i desideri dell’uomo, accondiscendente, buonista, ma è una vera sfida, non solo
teologica, ma anche sociale e politica se vogliamo. Dalla vera misericordia deriva
un’immagine di Dio come risposta adeguata all’ideologia ancora in voga, tanto quella
marxista quanto quella capitalista.
Il card. Kasper è ben attento nel
denunciare tutti i rischi che si nascondono negli accenti quasi ossessivi alla misericordia,
ma a volte contro la verità. Un mondo che ha rinunciato a Dio e alla ragione,
non può che accontentarsi di buoni sentimenti. Scrive, ad esempio: «La misericordia senza la verità sarebbe
priva di onestà; sarebbe semplice consolazione, in definitiva un chiacchierare
a vuoto. Viceversa, però, la verità senza misericordia sarebbe fredda,
scostante e pronta a ferire» (p. 241).
Fine primario del libro di Kasper sulla
misericordia, comunque, rimane un ridare assetto sistematico alla grande
assente nel dibattito e nella speculazione teologici, provocando una coscientizzazione
più ampia. Il nostro autore offre, così, dopo aver esaminato attentamente il
messaggio della misericordia nell’A.T. e nella predicazione di Gesù, importanti
riflessioni per un quadro speculativo generale sulla misericordia. Vogliamo
occuparci più a lungo proprio di questo, perché a giudizio di chi scrive, in
questo quadro sistematico, si insinua qualcosa che potrebbe sconvolgere
l’insieme: facilmente esagerando i tratti misericordiosi di Dio, quando non
addirittura spingendoli molto a ribasso. Esaminiamo quest’opera per gradi.
Beati
i poveri in spirito
C’è una novità quasi radicale di Cristo
rispetto al messaggio dell’A.T., commenta Kasper, consistente nel fatto che
Gesù, «predica la misericordia definitiva
per tutti. No solo a pochi giusti, ma a tutti egli dischiude la via di accesso
a Dio…Dio ha messo definitivamente a
tacere la propria ira e ha fatto spazio al suo amore e alla sua misericordia»
(p. 103). Questa drastica separazione con l’Antica Alleanza, dove sembra, così
dicendo, che non ci sia posto per la compassione e l’amore, non appare ben
supportata. Basti pensare ai Salmi che lodano l’amore misericordioso del Padre
per noi (cf. Sal 117, oltre a quelli che cita anche il nostro autore, convinto
che dall’Esodo fino ai Salmi Dio è misericordioso e pietoso,
cf. p. 93). La misericordia, in fondo, deriva dallo stesso atto creativo di
Dio, che suscita in Lui approvazione e gioia (cf Gen 1,4.10.12.18). Dio non
disprezza ciò che ha fatto, non rinnega
l’opera delle sue mani.
Ma ciò che preme sottolineare al
cardinale, nell’accento misericordioso del N.T., è piuttosto questo passaggio, in
verità molto oscuro: «Suoi destinatari (di
Gesù) erano in modo particolare i
peccatori; essi sono i poveri in spirito» (p. 103). E questo, sembrerebbe,
per il fatto che Gesù è amico dei pubblicani e dei peccatori (cf. p. 104). I
peccatori sono i poveri in spirito? Quindi, chi commette i peccati è beato
perché ha perso qualcosa nello spirito? Si vede a quali conclusioni potrebbe
portare una tale considerazione, quando non a veri errori, che difatti sono già
noti in tante predicazioni e infatuazioni misericordiose. La povertà di spirito
non è una mancanza materiale di qualcosa (della grazia di Dio?), ma è una
condizione interiore, un atteggiamento dell’intelligenza e del cuore, semplici,
penitenti e umili, che si pongono davanti a Dio, senza mezzi umani, in ascolto
della sua Parola (cf. Mt 5,3 alla luce del Sal 69,33ss.).
Su questo punto, invece, ha le idee molto
chiare un importante teologo protestante, Heinz Zahrnt, il quale dice così,
commentando il ministero pubblico del Signore: «I peccatori non sono scusati e
la malattia non viene idealizzata. Gesù è un amico dei peccatori, non il loro
compagno… Certamente il ritorno del peccatore rimane indispensabile, ma non è
la condizione, è piuttosto la conseguenza del dono grazioso di Dio» (Jesus aus Nazareth. Ein Leben, Monaco
1987, p. 109). I poveri di spirito sono coloro che si convertono, non i
peccatori che rimangono tali.
La
misericordia specchio della Trinità?
Kasper rifiuta la visione metafisica
classica e fa sua invece la critica di Kant, ben espressa poi in quel “Che cosa possiamo sperare?”. Cioè, la
nostra intelligenza è limitata, non può superare il campo del visibile e
dell’esperienza umana. Ciò che va oltre
non è dato di conoscere, ma è relegato alla speranza, la quale rappresenta un
mero postulato (cf. pp. 190-191). Questo anche per Kasper. Infatti, scrive: «…non è possibile superare la critica di Kant
ai tentativi di una teodicea; tutti questi tentativi vanno considerati come
falliti», p. 191. Ma ci si pone, almeno qualche volta, il problema che una
speranza come semplice presupposizione, ma infatti fondata sul dubbio, è già
disperazione?
La teodicea, legata a una visione
essenzialista di Dio, che, tra l’altro, escludeva dagli attributi dell’Essere
divino la misericordia, riconducendoli invece, solo ad attributi (forti) come
l’onnipotenza, la giustizia, l’infinità, ecc., lascerebbe il posto, nella S. Scrittura,
a una forma più esistenziale dell’Ego sum
qui sum (Es 3,14): non Io sono l’Essere, ma Io sono sempre con voi e per
voi (cf. p. 129). Però, se la metafisica ha escluso la misericordia tra gli
attributi essenziali di Dio (cf. p. 23), perché essa ci è rivelata da Dio nella
sua automanifestazione storica a partire dalla Sacra Scrittura – gli attributi
metafisici di Dio riguardano ciò che la ragione può cogliere come universale e
senza necessità di una rivelazione soprannaturale –, Kasper in realtà si
ingegna a voler collocare proprio la misericordia nella stessa essenza di Dio,
come proprietà fondamentale di Dio; di più, al dire del nostro, come «specchio della Trinità» (p. 140).
Questo, infatti, gli consente di dover guardare ormai e per sempre alla
giustizia dalla misericordia: «Se la
misericordia è la proprietà fondamentale di Dio, allora essa non può essere
un’attenuazione della giustizia, ma bisogna piuttosto concepire la giustizia di
Dio partendo dalla sua misericordia. La misericordia è allora la giustizia
specifica di Dio» (p. 137).
È qui percepibile lo sforzo ecumenico del
nostro autore, in un discorso in cui la visione di Lutero sembra costituire lo
sfondo grazioso, ma, in ogni caso, ciò che stride è il tentativo di assorbire
la giustizia nella misericordia. In teologia la misericordia è qualificabile
come dono, una grazia, non un’esigenza, come invece lo è la giustizia, anche se
naturalmente contempla anche l’aristotelica epicheia. La misericordia perfeziona
e compie la giustizia ma non l’annulla; la presuppone, altrimenti non avrebbe
in sé ragion d’essere. E questo anche perché le proprietà o attributi divini, a
livello razionale, sono deducibili da ciò che la ragione è capace di esprimere
su Dio. S. Tommaso dice: «La misericordia va attribuita a Dio in
modo principalissimo (maxime attribuenda);
non per quanto ha di sentimento o passione, ma per gli effetti (che produce)» (S. Th., I, q. 21, a. 3).
Anche se Kant dice di no, la ragione
rimane comunque aperta alla realtà come tale, alle cose che sono in quanto sono,
alle cose che esistono. Se Dio esiste (come lo sa questo Kasper? Solo dalla
fede? Dalla speranza?) la ragione è aperta a tutto l’essere; la ragione è
aperta a tutto l’essere perché Dio esiste. Ma questi discorsi possono apparire
troppo fissisti, passati di moda.
Al nostro cardinale preme però dimostrare,
con S. Luca (6,36), in un modo che sinceramente ci sfugge, che «la misericordia è la perfezione dell’essenza
di Dio. Dio non condanna, ma perdona, dà e dona in una misura buona, sollecita,
vagliata e sovrabbondante» (p. 105). Se allora la misericordia appartiene
all’essenza stessa di Dio, perfezionandola (sic! In realtà, cosa può
perfezionare Dio se non Dio stesso? Ad ogni modo bisogna decidersi se fare uso
o meno della metafisica), allora, «nella
misericordia non viene certo realizzata l’essenza trinitaria di Dio, questa
però diventa concretamente realtà per noi e in noi» (p. 144). Kasper
riprende la tesi dell’autoritrazione di Dio nella sua kenosi umana, non nel senso protestante di rinuncia alla sua
divinità: per Lutero Dio nella sua kenosi
è raumgebend, cioè colui che fa spazio all’autodecisione dell’altro,
piuttosto nel senso della sua rivelazione. Dio, infinito in sé, si ritrae per
fare spazio all’altro; al Figlio e mediante Lui allo Spirito Santo. In Dio,
questa ritrazione, nella sua stessa infinità, è kenosi, è autospogliamento di sé, presupposto poi, perché, Dio
infinito, possa fare spazio alla creazione. L’autoritrazione trinitaria conosce
il momento del suo sublime rivelarsi nell’incarnazione e nella Croce di Gesù
Cristo, rivelazione della sua onnipotenza nell’amore. Così Kasper (cf. p. 144).
Ci chiediamo: se Dio si ritrae per fare
spazio all’altro, sia esso una persona divina o il creato, chi sarà l’altro?
Dio stesso che si ritrae fino a perdersi nell’altro? L’uomo è
l’autospogliamento di Dio? L’umanità di Gesù è l’autospogliamento rivelativo di
Dio? Non c’è il rischio che Dio rimanga poi solo il Dio di Gesù Cristo, nella kenosi
rivelativa di Dio? E che Gesù Cristo non sia più Dio ma solo la ritrazione
del Padre? Domande che crescono e che ci colgono sorpresi. Ma che ci mettono
davanti al rischio concreto dell’abbandono della metafisica.
Come
possiamo non disperare
Un altro capitolo teologico importante
nell’analisi di Kasper è quello riguardante la misericordia in relazione al
discorso escatologico. Ancora una volta Kasper, ora suffragato da Hans Urs von
Balthasar, si richiede, con la critica della ragion pura di Kant: «Che cosa
possiamo sperare?», domanda che riassume, a suo giudizio, «tutte le domande umane» (p. 158). Come per la ragione filosofica
anche per l’intellectus fidei però si
pone subito un problema: non tanto cosa
ma come possiamo sperare? Qual è il
modo teologale corretto di esercitare la speranza? Sembra che, come per la
metafisica, anche in ambito escatologico l’analisi di Kasper presenti un vulnus.
Nella S. Scrittura scopriamo due diverse
serie di affermazioni che per Kasper, come già prima per von Balthasar, nel suo
Sperare per tutti (or. ted. 1986, tr. it. 1989) appaiono inconciliabili. Per von Balthasar
difatti rimangono inconciliabili, e cioè, in sintesi: da un lato la
dichiarazione incontrovertibile che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini
(1Tm 2,3) e dall’altro, comprensivo di più luoghi scritturistici, il giudizio
universale, in cui alcuni andranno alla perdizione eterna e altri alla salvezza
eterna (Mt 25,31-46).
A giudizio di Kasper, le affermazioni
salvifiche universalistiche sono di speranza per tutti, ma non riguardano la
salvezza effettiva di tutti e singoli gli uomini, mentre le affermazioni che
parlano di giudizio e dell’effettiva dannazione non intendono dire di nessun
uomo che si sia dannato. Questo dà modo al cardinale tedesco di dedurre quanto
segue: «Di nessun essere umano concreto
ci è stata rivelata la dannazione eterna e la chiesa non ha mai insegnato in
modo dogmaticamente vincolante a proposito di nessuno che egli sia caduto nella
dannazione eterna» (p. 166). Neppure di Giuda si potrebbe dire ciò con
sicurezza. Qui però sembra che si confonda il magistero dogmatico, che insegna
senza alcun dubbio l’esistenza dell’inferno e l’effettiva perdizione di chi
muore in stato di peccato mortale (si veda, come sintesi di numerosi interventi,
il CCC ai nn. 1033-1035), con una sorta di dichiarazione infallibile che quel
tale si è dannato. La Chiesa, come ben sappiamo, non fa “canonizzazioni” per
chi si danna, ma insegna infallibilmente, sulla base del chiaro insegnamento
del Signore, che l’inferno esiste e che non è vuoto.
Per Kasper però, e questo è il vero
problema della sua analisi, «non possiamo
né interpretare le affermazioni storico-salvifiche universali, piene di
speranza, nel senso della dottrina dell’apocatastasi, come conoscenza di fatto
dell’effettiva salvezza di tutti i singoli, né dedurre dalla minaccia del
giudizio e dalla reale possibilità dell’inferno l’effettiva dannazione eterna di
singoli essere umani o addirittura della maggioranza degli uomini» (p.
167). E questa è la posizione di Kasper: «Possiamo
sperare nella salvezza di tutti, ma di fatto non possiamo sapere se tutti si
salveranno» (p. 169). Questo è l’approdo, difatti, del criticismo kantiano.
Non si può sperare, contro la fede, la salvezza di tutti. Come non c’è una
speranza contro o senza la ragione, analogamente, non c’è speranza teologale
contro o senza la fede. Non si può sperare contro le parole chiarissime del
Signore: «…e questi se andranno alla perdizione eterna e i giusti alla vita
eterna» (Mt 25,46), come se fossero mere esortazioni a fare i buoni.
Kasper nella sua analisi cerca una via
mediana tra la posizione di von Balthasar, da cui vuole distaccarsi, e la
dottrina della Chiesa, ma alla fine non ci riesce.
Von Balthasar aveva sostenuto che «non
si sa se tutti si salveranno, ma si “può” sperare che nessuno si perderà» (Sperare per tutti, p. 13). Alla fine, il
teologo di Basilea, rispondendo ai suoi critici in modo acceso, dirà che non
solo si può, ma addirittura si deve
sperare che nessuno si perderà. Chi pensasse che oltre a se stesso anche solo
un altro potesse perdersi eternamente non amerebbe più senza riserve (Breve discorso sull’inferno, or. ted.
1987, tr. it. 1988, p. 57). A conforto della sua idea originaria, più
possibilista ma non ancora esclusivista, von Balthasar amava riferirsi a una
“nuvola di testimoni”, di mistici, che avrebbero condiviso la sua tesi.
In
realtà, fu dimostrato nello stesso anno 1986 dalla rivista tedesca
«Theologisches», che nessuno dei mistici indicati da von Balthasar sostiene la
sua visione di un “inferno vuoto”, con la sola eccezione di Adrienne von Speyr.
Tutti i Santi e mistici confermano la visione della dottrina della Chiesa: ci
sono dei dannati all’inferno, non ultimo il Messaggio della Madonna a Fatima.
Qualora ci fosse qualche apparente discrepanza tra le visioni dei mistici circa
le realtà ultime – Balthasar ad esempio amava riferirsi alla misericordia della
piccola Teresa, più che alla teologia mistica della grande Teresa – la cosa va
risolta guardando all’insieme dei Santi e non a casi isolati e nell’ottica del
Magistero della Chiesa.
Kasper,
per rafforzare la sua tesi, cita anch’egli numerose testimonianze di diversi
santi, specialmente donne. Ma li cita normalmente secondo von Balthasar. In
definitiva, il vero problema di von Balthasar fu la sua dipendenza in toto da Origine, come gli rimproverò
Werner Löser: il teologo di Basilea volle svolgere la sua intera opera «nello
spirito di Origine»; a differenza di questi, però, non postulò anche la
salvezza del diavolo, ma solo quella degli uomini.
Un
Dio che soffre per misericordia?
Infine, vorremo soffermarci su un altro
aspetto sistematico con cui il card. Kasper lumeggia la misericordia di Dio in
se stesso. Ora l’accento è posto sulla sofferenza di Dio e si può subito capire
che anche qui la questione diventa molto delicata: da un lato è in agguato il
cosiddetto patripassianismo, vecchio errore che ammetteva la sofferenza del
Padre nella passione del Figlio e dall’altro una sorta di apatia di Dio, ragion
per cui molti si sono allontanati da un Dio che sembra non avere un cuore, un Dio
freddo calcolatore che rimane muto dinanzi al mistero del dolore e della sofferenza
innocente.
Dio non è apatico, dice Kasper. «Secondo la testimonianza della Bibbia Dio ha
un cuore per noi uomini, soffre con noi, gioisce con noi e si affligge per noi e
con noi» (p. 183). La Bibbia non conosce un Dio che troneggia in modo
insensibile. Venendo al N. T., è lampante l’esempio del Cristo, di colui che
assunse per noi la forma di servo umiliando se stesso (cf. Fil 2,6ss.). Un Dio
in croce, vero scandalo per il mondo nella stoltezza dei pensieri umani. Il
tentativo di Kasper qui è di unire l’insegnamento della Bibbia, cioè di un Dio
che soffre per amore con quello della teologia classica e metafisica, secondo
cui Dio non può soffrire in se stesso, ciò che sarebbe chiaramente un divenire
e perciò una solenne imperfezione.
A giudizio di Kasper, però, «per la Bibbia… la con-sofferenza di Dio non
è espressione della sua imperfezione, della sua debolezza e della sua
impotenza, ma è espressione della sua onnipotenza… Egli non può quindi essere
passivamente e contro la sua volontà colpito dal dolore, però nella sua
misericordia si lascia sovranamente e liberamente colpire dal dolore» (pp.
184-185). Dio nella sua misericordia è libero di soffrire e soffre per noi. Così,
conclude Kasper, «oggi molti teologi
della tradizione cattolica, ortodossa e protestante parlano della possibilità
che Dio ha di soffrire e di con-soffrire con noi» (p. 185).
È molto importante spiegare che Dio può
soffrire, anzi che si è fatto uomo proprio per poter soffrire per noi e con
noi. Perciò non è insensibile o apatico. Ma in che modo però parliamo di Dio
quando gli attribuiamo la sofferenza? Quale estensione ha il concetto “Dio” in
Kasper e negli altri teologi che sostengono, evidentemente senza distinguere,
la “sofferenza di Dio” dal Dio in quanto tale? Sembra, a ragion veduta, che
Kasper, per appurare la sofferenza misericordiosa di Dio, utilizzi il concetto “Dio”
in modo universale, o se vogliamo, in relazione alla Trinità, in modo piuttosto
modale. Bisogna chiedersi: Dio soffre in quanto Dio, in quanto Padre, Figlio e
Spirito Santo, o non invece in quanto Figlio e soltanto nella sua natura umana?
La sofferenza, in verità, è di Cristo e circoscritta alla sua natura umana. La
possiamo attribuire anche alla natura
divina del Figlio – in questo senso Dio soffre, Dio muore, Dio è in Croce, ecc.
– in virtù della communicatio idiomatum,
comunicazione che non sposta la sofferenza da Cristo a Dio e quindi alla
Trinità, ma attribuisce la sofferenza della natura umana del Christus patiens alla sua natura divina, nature ipostatizzate dalla persona
divina del Verbo e quindi, in ogni caso, delimitata alla seconda persona divina
della SS. Trinità. Dio non soffre come Dio ma come uomo in Cristo. L’operazione
logicamente scorretta è attribuire in modo improprio ciò che è di Cristo al Dio
trino e uno. Certamente vale ciò che dice s. Bernardo di Chiaravalle, che Dio è
impassibilis ma non incompassibilis, capace cioè di
compatire ma non di patire, ma non è corretto affiancare questa citazione, con
quella di S. Agostino in Enarrationes in
Psalmos 87,3: il Signore assunse la debolezza umana e la morte non per la
miseria della sua condizione ma per la volontà della sua compassione, a quella
di Origine in Homilia in Ezechielem
VI,8, secondo cui Dio «prius passus est,
deinde descendit. Quae est ista, quam pro nobis passus est, passio? Caritas est
passio» (cf. p. 186). Qui Origine non è accettabile: è contro il dogma
della Chiesa ammettere una sofferenza in Dio, addirittura prima della sua
incarnazione e trasformare la Carità, che è Amore purissimo e semplicissimo, in
sofferenza. Se anche Dio soffre nella sua eternità, chi potrà mai liberarci
dalla sofferenza, una volta per sempre? E se Dio soffre, ma per amore, chi darà
un senso al mio amore, che è essenzialmente richiesta di non più soffrire?
Ne va da sé che per Kasper l’unica vera
risposta al male, alle tragedie, alle catastrofi naturali è la speranza, e cioè
l’esercizio della misericordia. La ragione non può dirci di più e neanche la
fede (cf. pp. 187-199).
Ci si consenta, a questo punto, anche
qualche perplessità nel pensare all’impianto della misericordia che soggiacerebbe
al «Vangelo della famiglia», tema introduttivo e linea guida per i lavori del
prossimo Sinodo sulla famiglia.
Qual è difatti la misericordia che
dovrebbe fungere ormai da ponte tra «la dottrina
della Chiesa sul matrimonio e le convinzioni
vissute di molti cristiani»? Forse che i divorziati risposati, che
desidererebbero fare la comunione, sono i poveri in spirito, ai quali non resta
altro se non la speranza come
esercizio della misericordia?
I Santi, in verità, ci insegnano ad
essere molto cauti con la misericordia di Dio, a non prenderla sottogamba, né a
misconoscerla, chiudendosi in un desiderio di giustizia ad ogni costo. L’apostolo
della Germania, S. Pietro Canisio, S.J., dice a tal proposito: «Con la
misericordia di Dio vogliamo sempre comportarci in modo da essere conformi alla
sua giustizia. Gli uomini ciechi si lasciano sedurre da una confidenza vanitosa
nella misericordia di Nostro Signore» (Lettera
alla sorella Wandelina van Triest, nata Kanis, Colonia, 23 marzo 1543).
p. Serafino M. Lanzetta
Caro Padre Serafino. Ogni giorno ringrazio Iddio e la Vergine Santissima per averLa "incontrata". Sì, perché non ci conosciamo "fisicamente", ma attraverso i Media, veicolo del suo Santo Insegnamento. Ho letto d'un fiato il Lavoro Mastodontico e monumentale che le ha giustamente dato accesso alla libera docenza. GRAZIE! Grazie per questa recensione, che come al solito non si limita ad esser tale. Ma è un piccolo saggio teologico di chiarezza adamantina. Grazie per il suo Apostolato altissimo. Grazie per il suo amore (VERO!) per la Chiesa Cattolica Romana. Unica Chiesa di Cristo! Grazie per la sua perseveranza. La prego di continuare a Istruirci! Abbiamo bisogno di Sacerdoti come Lei! Ne ho bisogno io, che non sono nessuno. Ma proprio per questo la incoraggio!
RispondiEliminaIn corde Matris.
Con devozione
Stefano Fiorito
Caro Stefano,
RispondiEliminagrazie per tutti questi grazie. Ma forse sono un po' troppi...
Le sue parole sono come una rugiada, in un momento non facile per il nostro Istituto e per la Chiesa universale. Preghi per noi e per me, perché si compia sempre la volontà di Dio e dell'Immacolata.
In Corde Matris
psm
Carissimo Padre, le sue parole mi hanno fatto tornare in mente alcune vicende della vita mia e della mia famiglia. Sembra davvero atroce e incredibile la crisi che sta attraversando la Chiesa Cattolica. Acuita dalla controversa abdicazione del venerato Benedetto XVI. Io stesso, con mia moglie Katia, ho molto sofferto a causa di una associazione presunta ecclesiale (che di fatto non lo è per nulla), nella quale entrai. Ci si chiede come sia possibile che sia così diffuso un pensiero profondamente anti-cattolico in associazioni e strutture formalmente ....cattoliche! Un pensiero violento, che colpisce il foro interno delle persone, che provoca fratture familiari e sovente dolorose separazioni!
RispondiEliminaPoi mi è tornata la mente sulla Vostra preziosa Famiglia. In fondo anche voi siete una Famiglia, ed anche voi siete sottoposti a dura e ingiusta prova. Tempo fa leggevo un articolo di un altro venerato e venerabile Teologo, Padre Enrico Zoffoli. Egli affermava (Enrico Zoffoli, La vera Chiesa di Cristo, Roma 1990, pp.285-289):"... in momenti particolarmente critici della vita della Chiesa, tutti i membri del Corpo Mistico, essendo animati dallo Spirito e illuminati dal Verbo dipendentemente dalla formazione ricevuta dalla stessa Gerarchia, possono ed anzi devono partecipare attivamente alla sua vita, reagendo contro ogni minaccia di prevaricazione, anche sfidando l'impopolarità e subendo provvedimenti disciplinari. Il bene della Chiesa merita di avere le sue vittime sacrificate da certi uomini della Chiesa, indegni di rappresentarla, incapaci di salvarne l'onore."
Queste parole mi hanno consolato. La mia sofferenza, che continua oggi a causa del disprezzo del mio "sentire Tradizionale" da parte dei miei Sacri Pastori, assume un aspetto diverso.
Devo dire che io e la mia famiglia ci sentiamo soli. Anche se siamo certi che l'Immacolata non ci abbandonerà. Confidiamo, con lei, come giustamente ha scritto nel suo ultimo lavoro, che il Dogma dell'Immacolata Corredentrice possa presto portare chiarezza in questa immensa confusione.
Dio la Benedica Padre! L'Immacolata la protegga sempre!
Con affetto
Stefano