mercoledì 14 dicembre 2011

Un Anno della Fede a 50 anni dal Concilio. Tra ermeneutiche in conflitto


Pubblichiamo un estratto dell’Editoriale di «Fides Catholica» 2 (2011), in uscita. Il testo integrale apparirà nella rivista, corredato dell’apparato scientifico.

L'Anno della Fede che inizierà ad ottobre 2012 è collegato in modo ideale dal S. Padre anche all'inizio del Concilio Vaticano II, che è necessario interpretarlo con una giusta ermeneutica, come ribadisce lo stesso Pontefice. Il discorso attuale dei teologi sul Vaticano II è piuttosto variegato e a volte anche contrastante. Recentemente si è registrato un intervento di don Pietro Cantoni, volto, più che altro, a squalificare il tentativo teologico di Gherardini, di fare un discorso sul Concilio. L'analisi di Cantoni è ben fondata teologicamente? Non è forse il momento di affrontare i problemi reali del Concilio, quali il giusto rapporto tra pastorale e dottrina, la continuità e la discontinuità a livelli diversi, più che continuare solo a declamare la continuità?


Il S. Padre ha indetto, con l’anniversario della solenne apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 2012, un Anno della fede, collegandolo idealmente all’ultima assise conciliare. Il discorso ormai famoso di Benedetto XVI alla Curia Romana, del 22 dicembre 2005, segnò, in verità, una vera svolta nell’analisi del Concilio. Avviò una nuova disputa intorno al Concilio; un confronto non più a senso unico col monopolio di una certa ermeneutica, ma un dialogo a più voci, molte delle quali nuove e scevre di risentimenti o rancori di sorta. L’ermeneutica giusta, al dire di Benedetto XVI in quel discorso, è la «riforma», o «l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Una tale riforma comporta continuità e discontinuità secondo livelli diversi: «È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma», scrive il Pontefice. Continuità nei principi dottrinali e discontinuità delle forme storico-contingenti, che facevano da supporto a tali principi.

Guardando però più da vicino il Vaticano II e in modo globale, si nota una riforma non solo delle forme storiche e sociali, come poteva essere ad esempio la nuova concezione dello Stato moderno, tale da indurre la Chiesa a ripensare la dottrina della libertà religiosa, rinunciando ad una religione di Stato, ma anche una certa riforma della stessa dottrina: la stessa libertà religiosa, ad esempio, da aspetto soggettivo come incoercibilità della coscienza nella sua apertura alla verità, diventa invocazione oggettiva della medesima plausibilità di tutte le religioni all’interno di uno Stato, in ragione del diritto alla libertà religiosa, che deve diventare libertà di culto (cf. DH 1 in relazione a DH 3 e 4): il livello soggettivo della libertà di coscienza diventa anche e soprattutto oggettiva egualità sociale di tutte le religioni. Libertà religiosa e libertà di culto sono, in verità, due elementi distinti. Se non le si distingue, argomentandone la reciproca fondatezza nella verità, accade facilmente che la prima venga negata e assorbita dalla seconda. La natura è negata a favore del diritto. Si pensi all’Islam. E la risposta cattolica non può essere semplicemente l’assicurazione di entrambe, ma solo la subordinazione della libertà di culto alla libertà religiosa, radicando quest’ultima nella coscienza morale in quanto aperta alla verità.

Una riforma, perciò, ha interessato anche le dottrine e questo principiando non dalle dottrine ma dal modo di insegnarle, dalle forme storiche contingenti, in primis, dalla forma espositiva e linguistica, ovvero da una nuova metodologia, più pastorale ed ecumenica. Di fatto la dottrina – alcune dottrine – è così “nuova”. L’accavallamento di soggettivo e oggettivo nella libertà religiosa è un paradigma. Ma gli esempi riguardano anche altri ambiti come l’ispirazione dei libri sacri, il rapporto Scrittura e Tradizione, la Collegialità episcopale, il concetto di ecumenismo, che fa leva quasi esclusivamente sul sacramento del Battesimo. Si è indubitabilmente di fronte ad un insegnamento nuovo, che poi possa essere o meno in pieno collegamento con l’insegnamento precedente è un altro problema, un secondo dato da analizzare. Nel Vaticano II ciò che è da appurare anzitutto è che la continuità e la discontinuità, secondo livelli diversi, si collocano sul piano del soggetto docente e della dottrina insegnata, altrimenti si rischia solo di declamare la continuità delle dottrine ma senza mai verificarla. Si rischia di voler conservare col Vaticano II uno status quo nella Chiesa. Se così non fosse, se la difficoltà ermeneutica cioè non ascendesse fino al rango degli asserti magisteriali, del loro essere semplice sviluppo o piuttosto una nuova forma, una ri-forma della dottrina cattolica, sarebbe già risolta tutta la difficoltà ermeneutica, che invece è il vero rompicapo per valutare correttamente il Vaticano II. Se la difficoltà ermeneutica non riguarda la dottrina di prima e quella di dopo, cade la stessa necessità di un’ermeneutica giusta per appurarne la continuità: questa sarebbe semplicemente evidente.

A nostro giudizio, c’è una nuova forma della dottrina cattolica, che nasce da un binomio tipico del Concilio, non sempre così chiaro – di qui la difficoltà – di dottrinarietà e pastoralità: queste due facce a volte si sovrappongono, a volte si interscambiano. Un solo esempio lampante: in nome del dialogo ecumenico si volle una dottrina sulla Divina Rivelazione che lasciasse insoluto il problema dell’insufficienza materiale delle Scritture; al dire di Florit né lo si affermava né lo si negava, anche se il magistero ordinario nei catechismi aveva appurato definitivamente che non tutte le verità, oltre al canone sacro, sono contenute nella Scrittura.


Il problema ermeneutico del Vaticano II implica 3 aspetti distinti:

1) nel concilio ci sono delle dottrine nuove;

2) queste sono uno sviluppo e/o ri-forma delle dottrine classiche;

3) il grado dell’asserto magisteriale delle dottrine conciliari.


A questo punto come coordinare continuità e discontinuità? La domanda, in modo frettoloso, viene anche formulata così: il Vaticano II è o non è in continuità con il magistero precedente? La domanda però va oltre la mera e scontata asserzione dell’autenticità del 21° concilio della Chiesa rispetto ai 20 precedenti. Se ciò non fosse presupposto sarebbe inutile anche la domanda. La si deve perciò collocare in un substrato teologico molto più sottile, lì dove si nasconde il vero problema: in che modo il magistero del Vaticano II si colloca in continuità con quello precedente? Dove si coglie la continuità? Fino ad oggi, a cinquant’anni dal Vaticano II, una delle soluzioni che trova più favore, perché forse mai preso di vista in modo scientifico il vero problema, se non grazie al grido d’allarme di Gherardini, è quella secondo cui la continuità è garantita dal magistero stesso: per il fatto che siamo dinanzi ad un’asserzione del Vaticano II, dunque del magistero solenne, abbiamo la continuità. Fondamentalmente questa è la posizione di P. Giovanni Cavalcoli e, di recente, di don Pietro Cantoni. Il magistero diventa così ragione di se stesso.

Ma in questo modo non si dà ragione delle effettive “riforme” del Vaticano II, che si leggono per la libertà religiosa, confrontando la visione ecclesiologica di Pio XII e quella del Vaticano II, per la collegialità del Vaticano II quale “perfezionamento” del primato petrino nel Vaticano I. Come intendere questo perfezionamento? Basta esporre una nuova dottrina o invece è necessario radicarla nella Tradizione della Chiesa?

Il problema “cuore”, dunque, è coordinare continuità e discontinuità secondo livelli differenti, in modo da leggere una nuova dottrina insegnata dal medesimo soggetto. È proprio qui il nodo: la continuità è assicurata dall’unico soggetto che insegna, il magistero, che però non si identifica con la Chiesa e con l’infallibilità totale di essa, rimanendo questa più ampia e includendo ad esempio il sensus fidei del Popolo credente, dunque un’infallibilità in credendo che precede e fonda quella in docendo. È necessario radicare in modo assoluto, oggi più che mai, l’infallibilità del magistero, nelle Verità credute infallibilmente per mezzo della fede, per evitare di scadere in una visione meramente “burocratica”, in cui il soggetto docente diventerebbe l’ultima ragione del porsi della verità stessa. Ci sarà sempre un Küng che potrà inveire contro il monopolio del “potere romano”, dimenticando che la gerarchia è un’origine sacra, scende dall’alto quale munus, ministero, servizio alla Verità.

La discontinuità invece riguarda fondamentalmente due cose:

1) la nuova forma che assume il magistero nell’ultimo Concilio: un magistero fontalmente pastorale. Infallibile quando? Sempre, o non piuttosto solo quando reitera il dato di fede definitivo? Un magistero solenne/straordinario quanto alla forma ma ordinario autentico quanto all’effettivo esercizio;

2) i nuovi contenuti, le nuove dottrine. Negare infatti che ci siano delle dottrine nuove e che siano una ri-forma rispetto a quelle di prima, significa non vedere il Vaticano II. Il magistero può insegnare delle dottrine nuove, ma non per il fatto che le insegna sono (automaticamente) infallibili. Non infallibili poi non significa per sé erronee, ma solo non definitive. La non-infallibilità è un giudizio di valore sul grado magisteriale di cui è rivestita (dal magistero) la dottrina insegnata. L’errore è un giudizio logico che si dà ad una proposizione quanto alla sua conformità o meno al vero. Confondere errore (molto spesso tradotto con fallibilità) con non-infallibilità è un’operazione contraria alla logica e alla teologia.

Il problema c’è, ed è soprattutto di ermeneutica del magistero conciliare in quanto tale, e quindi delle dottrine. Così si presenta, a nostro giudizio, nell’insieme del quadro ermeneutico, un altro aspetto da non trascurare: quale ermeneutica teologica è necessaria per il magistero del Vaticano II? Purtroppo, non abbiamo una categoria per un’ermeneutica dell’aggiornamento magisteriale. Il Concilio volle essere un aggiornamento, ma come capire l’aggiornamento? Basta rispondere: con il magistero?

Alle tesi di Gherardini ha risposto in modo infuocato e con un fare quasi comminatorio di scomunica Don Pietro Cantoni. L’analisi di Cantoni, a nostro giudizio, sorvola il vero problema, e ci lascia amareggiati per il modo in cui tutto il libro viene organizzato: una stroncatura di una persona, mentre avrebbe potuto offrire, mostrando anche le reticenze, un valido contributo alla ricerca ermeneutica sul Vaticano II. Si condanna con la persona non solo una soluzione ma lo stesso problema. Di seguito ci concentreremo sui passaggi salienti di Cantoni in obiezione a Gherardini, onde scorgere i punti più delicati di questo proficuo dibattito.

Tutto l’impianto di Cantoni è fondamentalmente basato su questo concetto: Gherardini scredita il magistero conciliare; invece di mostrarne la continuità con quello precedente, assume un atteggiamento lefebvriano mostrandone la rottura, atteggiamento in antitesi con la Scuola Romana, del resto, sua eredità teologica. Gherardini sarebbe caduto in un sorta di “manualismo”, e il vero argomento per scongiurare ciò è l’accettazione del magistero, visto come soggetto docente più che come dottrina insegnata. Scrive Cantoni:

«Se il concilio ecumenico Vaticano II appare a qualcuno problematico, erroneo, perlomeno confuso, è proprio perché è letto in un’ottica sbagliata. Si tratta di quella “teologia manualistica” che – a contatto con il concilio – non ha retto, ma è andata in frantumi. Non è il concilio che è poco chiaro, è la teologia con cui è interpretato che è tale».

Ma sarà proprio con i grandi manuali dei teologi romani che Cantoni cerca di far vedere le contraddizioni di Gherardini nella sua critica al magistero del Concilio. E sono gli stessi teologi romani, con i loro manuali, ai quali si appella Gherardini quando spiega il concetto di Tradizione: quel quod ubique quod semper quod ab omnibus creditum est, che, quale regola aurea, è principio di ogni sviluppo omogeneo della dottrina cattolica, quanto alla sua accresciuta comprensione, dove Scrittura e Tradizione sono la norma remota della fede, mentre il Magistero è la norma prossima.

Il problema dei manuali che non reggono al confronto col Vaticano II viene corretto da Cantoni col fare appello all’autorità magisteriale, che a suo modo di vedere,

«è di carattere carismatico, non “epistemico”, è la sua stessa proposizione che garantisce della sua continuità con la Tradizione, perché è essa stessa componente e componente costitutiva e formale di questa stessa Tradizione, e costituisce quindi per il teologo un fatto a partire dal quale condurre la sua indagine».

Questa affermazione è del tutto nuova. Significa scindere nell’organo magisteriale il soggetto docente dall’oggetto dell’insegnamento, sia materiale che formale. Se la si esaspera si potrà arrivare a trarre dal magistero ogni possibile conclusione. Il magistero stesso non sarà più vincolato da res fidei et morum e potrebbe diventare fautore anche di una nuova Rivelazione. Il che è impossibile. Nel magistero ecclesiastico bisogna considerare unitamente e distintamente: il soggetto attivo che insegna (il Papa e il Collegio dei vescovi), l’oggetto materiale (la verità rivelata) e l’oggetto formale (l’autorità del magistero, che ammette diversi gradi). Dei Verbum al n. 9 precisa i confini del magistero, che non sono dati da se stesso, ma dalla Scrittura e dalla Tradizione:

«Il … magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio».

Questa visione “carismatica” del magistero favorisce in Cantoni anche il tentativo di dedurre dal Vaticano II, come teologi privati o come fedeli, delle conclusioni irrinunciabili (infallibili), o almeno una dottrina «davanti alla quale non si può assolutamente escludere a priori che qualcosa sia infallibile». Cosa sia infallibile Cantoni non lo dice. Dice però, col sostegno del p. U. Betti, che,

«mentre a Trento e al Vaticano I i capitoli trovavano per lo più (ma non sempre…) nei canoni la conclusione perentoria del loro discorso, qui questa formulazione – che sarebbe infallibile in se stessa nella sua propria formulazione – manca per dichiarata scelta dell’autorità. Nulla però impedisce che una tale conclusione venga tirata dal teologo e dal fedele».

Tralasciamo l’allusione ai fedeli, sovraccaricati di un lavoro veramente immane. Spetta al teologo trarre le conclusione dogmatiche dai documenti del Vaticano II? E così appurarne l’infallibilità, almeno in qualche sua parte? Qui Cantoni scambia ciò che spetta propriamente al magistero, e cioè dichiarare una dottrina come definitiva, con l’opera della teologia, per quanto riguarda invece le “note teologiche”. Cosa può fare il teologo, o meglio, cosa possono fare i teologi? Non fa testo il singolo, ma è necessaria l’unanimità, analogicamente ai Padri.

È bene rivisitare a questo proposito il Commentarius al cap. VII “De Ecclesiae Magisterio”, dello schema preparatorio De Ecclesia, che a sua volta tiene conto del Votum Universitatis Lateranensis de necessitudine inter Magisterium Ecclesiae et sacram theologiam. Qui si distingueva due classi, ovvero due categorie dottrinali teologiche: la «doctrina certa» e le «sententiae theologicae», dove è richiesta, per entrambe, la partecipazione dei teologi e l’antichità e la reiterazione della dottrina: un «communi costanti consensu» e le «venerandae theologicae traditioni». Tutto questo si riscontra tra i teologi per quanto riguarda le dottrine (nuove) del Vaticano II? A tutt’oggi non sembra.

Cantoni giustifica il lavoro del teologo in ragione dell’infallibilità del magistero ordinario e universale, secondo quanto dice il Vaticano I.

Circa il magistero ordinario universale, sembra che Cantoni alluda ad un’universalità solamente de facto, la quale basterebbe a rendere infallibile l’asserto magisteriale del Vaticano II o almeno intoccabile e da accettare indiscutibilmente. Gherardini violenterebbe questa infallibilità/indiscutibilità di dottrine, a cui Cantoni con Scheeben dà la qualifica di “doctrina catholica”. Qui rileviamo due elementi. La qualifica di “doctrina catholica”, genericamente intesa, ci sembra alquanto sovrabbondante per il Vaticano II. La si attribuisce al Concilio come unicum magisteriale o alle singole dottrine? A tutti i documenti o solo alle Costituzioni dogmatiche? Cantoni tiene veramente conto dell’intenzione dei Padri nel redigere i documenti, in ragione della quale appurare la qualificazione della dottrina di ogni singolo documento? Se al Concilio come unicum risulta deficitaria perché il Vaticano II insegna in alcuni contesti in modo solenne e definitivo, ad esempio quando il Concilio utilizza l’espressione «docet Sacra Synodus» (LG 20), o «docet autem Sancta Synodus» (LG 21), o in altri insegnamenti introdotti dalla parola «credimus» o anche «creditur» (cf. LG 39; UR 3 e 4). Se invece alle singole nuove dottrine, qui sì che si vede ampiamente la sovrabbondanza: come si può attribuire sic et simpliciter una tale qualifica teologica a delle dottrine, in buona parte, ancora discusse dai teologi (si pensi particolarmente alla collegialità episcopale: il Papa e il Collegio sono due soggetti inadequatae distinctum?), e talvolta richiedenti un ulteriore intervento chiarificatore del Magistero stesso (si pensi alla questione del subsistit in)?; a dottrine cioè insegnate dal magistero ordinario ed universale (impropriamente “ordinario universale” perché qui si tratta di un raduno in un concilio, quindi di un magistero straordinario o solenne), senza che però venga dichiarata la loro definitività? Non è sufficiente, infatti, che ci sia un magistero ordinario ed universale (il collegio dei Vescovi sparso nel mondo che concorda con il suo Capo) perché la dottrina sia doctrina catholica (certa), ovvero definitivamente insegnata dalla Chiesa, muovendo verso il proximae fidei (è in questa direzione che va la qualificazione di Scheeben): è invece indispensabile che sia altresì insegnata tamquam definitive tenendam.

Il testo della Costituzione dogmatica Dei Filius, del Vaticano I, a cui Cantoni si appella, recita così:

«Si devono credere con fede cattolica e divina tutte quelle cose che sono contenute nella Parola di Dio, scritta o trasmessa, e tramite un giudizio solenne, o il suo magistero ordinario universale, vengono proposte alla chiesa come divinamente rivelate e, in quanto tali, da credersi» (cf. DH 3011, a cui faceva già riferimento il b. Pio IX nella Tuas libenter, del 21.12.1863).

Qui è detto che il magistero ordinario universale è infallibile per sé? Certamente non espressamente, ma vien detto che è necessario proporre alla Chiesa le verità come divinamente rivelate. Per rispondere a questa domanda, comunque, è necessario leggere il testo del Vaticano I alla luce di Lumen gentium 25, che recita:

«Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell'infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo».

Quel «si impone in maniera assoluta», che suona teologicamente molto povero nel nostro italiano, in latino invece esprime la giusta qualificazione teologica della dottrina ordinaria universale ed irreformabile: «[…] in unam sententiam tamquam definitive tenendam conveniunt, doctrinam Christi infallibiliter enuntiant».

Una tale spiegazione era già offerta da uno dei manuali più importanti nell’immediata preparazione al Vaticano II, quello del gesuita J. Salaverri, il quale spiegava la definitività del magistero ordinario universale in questo modo:

«I vescovi insegnano una dottrina da ritenersi come definitiva quando, con il sommo grado della loro autorità, obbligano i fedeli a dare ad essa un assenso irrevocabile».

Crediamo che qui il vero problema dell’analisi di Cantoni consista nell’appoggiarsi a Scheeben che, quantunque autore sicurissimo e validissimo, non ha conosciuto il Vaticano II, concilio con una natura e un fine diversi da Trento e dal Vaticano I, e al p. Betti, sostanzialmente isolato nella sua visione massimalista dei documenti (della Costituzione Lumen gentium) del Vaticano II.

La tesi del “magistero carismatico” non risolve il problema di un magistero a più livelli all’interno dello stesso corpo conciliare, di una nuova forma dell’insegnamento conciliare, di nuove dottrine il cui grado di autorità non è una ricetta fissa, ma va scorto in un lavoro di ricerca della mens conciliare nelle intenzioni dei Padri.

Della complessità del problema se ne era accorto anche l’acuto K. Barth, il quale, tra le varie domande poste a Roma, analizzate egregiamente da Gherardini, chiedeva:

«Il Vaticano II è stato un Concilio di riforma (la cosa è discussa!)? Che cosa significa aggiornamento? Aggiornamento in base ed in vista di che? Si è trattato: a) del rinnovamento, teoretico pratico, dell’autocoscienza della Chiesa alla luce della Rivelazione che ne costituisce il fondamento? oppure b) del rinnovamento del suo pensiero della sua predicazione, del suo operare oggi alla luce del mondo moderno?».

È ancora difficile rispondere a queste domande. Un Anno della fede però potrebbe essere l’occasione propizia.

p. Serafino M. Lanzetta, FI

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