venerdì 12 luglio 2013

Principi non negoziabili



(di p. Serafino M. Lanzetta, su Il Settimanale di P. Pio, nn. 26 e 27, giugno-luglio 2013).


Principi non opinioni 


La riflessione cattolica sui principi non negoziabili – definiti tali e in modo lungimirante da Benedetto XVI – rischia oggi, nel panorama della modernità liquida, di essere fraintesa, quando non anche di presentarsi, all’interno dello stesso mondo credente, a più voci ma per lo più contraddittorie. Dignità inviolabile della vita, matrimonio tra uomo e donna, procreazione, educazione dei figli da parte della famiglia, libertà religiosa come incoercibilità della coscienza nella scelta della verità, sono principi che promanano dalla legge naturale e perciò sono i fondamenti dello stesso agire morale. 

Oggi si cerca una via di dialogo perché non si scada in una sorta d’intolleranza morale, non si rischi di creare un muro cristallizzandosi su un bene che non è dogmatico ma razionale, come quello della morale naturale, precludendosi perciò la via del confronto sereno con i non credenti. Urgerebbe la necessità di trovare un’impostazione più condivisibile sui valori non negoziabili che, mentre non rinunci al patrimonio morale, non impedisca la valorizzazione di un dato centrale particolarmente sensibile che è la libertà di coscienza, ultimamente declinata come libertà di avvalersi di tutti i diritti dell’uomo, anche di quelli che diritti non sono. 

Ad esempio, con grande e grave arguzia, il neo-sindaco di Roma, Ignazio Marino, nel salutare il Gay-pride dello scorso 14 maggio, diceva così: «I diritti delle persone sono qualcosa che non può essere negoziato: non diritti speciali per qualcuno ma stessi diritti per tutti». Si capovolge l’assioma portante e così la stessa ragione: sarebbero i diritti (soggettivi) a non dover essere negoziati e non invero i beni universali dai quali promanano i diritti umani, i quali solo così non smetteranno di essere universalmente validi. 

Un equivoco di fondo, normalmente, si attesta sullo stesso approccio ai valori o beni universali e non negoziabili, i quali non sono opzioni morali ma principi dello stesso agire e che perciò costituiscono i presupposti della ragione pratica, che nel caso concreto sceglie in ragione del bene nella libertà. La ragione che si orienta nel campo della scelta morale non costituisce o plasma il bene morale, piuttosto lo trova come dato, come presupposto della stessa conoscenza che orienterà poi l’agire. Non è la ragione che crea il bene, né la volontà dell’uomo. Il bene viene prima, precede la conoscenza e lo stesso uomo. Il bene viene da Dio, Dio è il Bene. Pertanto, la legge naturale è scritta nell’uomo come partecipazione di quel Bene che è sempre tale ed è Dio stesso, riflesso della legge eterna di Dio. 

I principi non negoziabili sono a loro volta esplicitazione della legge morale naturale, precetti che sviluppano e concretizzano quelli generali che invitano a fare il bene, a ricercarlo sempre e sopra ogni cosa, e a evitare il male. 

Un’azione morale non può discutere l’accettabilità o meno dei principi del suo agire, stabilire se i valori morali sono validi in una determinata circostanza o almeno convenienti. Sarebbe come un uomo che, per conoscere, volesse prima discettare se conviene o meno stabilire che esiste il mondo e che nel mondo esisto io insieme ad altri. Come il mondo è un dato di partenza per chi vuole conoscere la realtà, così la vita inviolabile, ad esempio, è un dato di partenza per chi vuole agire in conformità al bene che per natura sua è universale. 

Perciò dobbiamo dire chiaramente che i valori non negoziabili sono evidenze morali, non dimostrabili ma dimostrate per sé, che a loro volta costituiscono la possibilità stessa dell’agire morale. Come direbbero i filosofi del senso comune – ci permettiamo un’analogia – sono essi stessi fondamento, senza alcun bisogno di essere fondati, della conoscenza e dell’agire morali. Sono principi indiscutibili, immutabili. Essi stessi, nella loro corretta applicazione, determineranno la verità o la falsità radicale dell’azione morale. 

Affermare ciò significa rinunciare al dialogo con i non credenti? Assolutamente no. Ripetiamolo: un dialogo è possibile solo se ci sono dei presupposti universali, validi per tutti e non solo oggi ma sempre. È necessario allora avere un concetto chiaro di “legge naturale”. 


La legge morale naturale e i principi non negoziabili 


Cos’è la legge morale naturale? Nel nostro mondo così pluralistico è sempre più sfaldato il concetto di “natura” o “essenza” e di conseguenza facciamo fatica a capire cosa voglia dirci legge morale naturale. 

S. Tommaso d’Aquino, citato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor (1993), insegna che la legge naturale «altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l’ha donata nella creazione» (n. 12). 

Ma tanti vorrebbero vedere una sorta d’indipendenza della ragione rispetto alla legge naturale. Se essa mancasse, la razionalità non sarebbe veramente un bene per tutti ma solo per pochi, per i credenti. 

Chiediamoci: si dà un’autonomia della ragione rispetto alla legge? Autonomia sì, se si intende che la ragione ha iscritti in sé i principi primi del conoscere e dell’agire e non li attinge se non da sé, ma mai intesa come autodeterminazione rispetto al bene universale e quindi alla legge morale. In definitiva, non è la libertà di coscienza da cui dipende la legge naturale ma è la legge naturale da cui deve dipendere la libertà di coscienza. 

Giovanni Paolo II, nell’enciclica citata, così insegna: «La giusta autonomia della ragione pratica significa che l’uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal Creatore. Tuttavia, l’autonomia della ragione non può significare la creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali. Se questa autonomia implicasse una negazione della partecipazione della ragione pratica alla sapienza del Creatore e Legislatore divino, oppure se suggerisse una libertà creatrice delle norme morali, a seconda delle contingenze storiche o delle diverse società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe l’insegnamento della Chiesa sulla verità dell’uomo. Sarebbe la morte della vera libertà: “Ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gn 2,17)» (Veritatis splendor, n. 40). 

L’obbedienza alla legge morale naturale, invece, per molti, sarebbe una supina accettazione di un “dogma naturale”, uno dei ritrovati cattolici per eliminare radicalmente l’insubordinazione di quelli che si definiscono “laici”, a cui piegarsi col rischio però di subordinarvi la coscienza e quindi la libertà. Questo, di fatto, porterebbe a non trovare mai soluzioni ampiamente condivise nel panorama frastagliato della nostra società. Il cattolicesimo s’imporrebbe con le sue pretese veritative e il vero dialogo (politico) sarebbe semplicemente calpestato. 

Andando più a fondo, alcuni critici parlano di “eteronomia”, nel caso in cui la coscienza dovesse abdicare al suo ruolo di sentinella dell’assoluto e soggettivo esserci in questo mondo per ascoltare altro da sé, altro e fuori di sé, come il caso di una legge che precede o supera la stessa coscienza. Tutto questo sarebbe un contraddire la libertà di coscienza. 

In verità, non si dà eteronomia perché i principi primi dell’agire morale sono attinti dalla legge eterna di Dio, da Dio stesso Creatore e datore di ogni bene, ratio boni. Ci sarebbe eteronomia e quindi limitazione della libertà solo se Dio non fosse il Creatore e se l’uomo, in ultima analisi, fosse il fattore di se stesso. Negare il Creatore e la ragione umana fatta ad immagine di quella divina, significa determinare il distacco della creatura dal Creatore, quindi un auto-orientamento umano al bene che, di conseguenza, non sarà più il bene appreso da Dio ma da noi stessi; Dio stesso non sarà più un bene ma un male per l’uomo. Questa è la menzogna del serpente velenoso. 

L’uomo rimane una creatura. La sua natura relazionale e contingente sarebbe una menzogna, una vacuità, se non attingesse la sua ragione d’essere da un Altro, da Dio. 

In altre parole, la legge naturale è la stessa ragione e l’amore partecipati da Dio all’uomo, la “misura” entro la quale si conserva la verità dell’essere, perché ogni uomo, con la sua libertà, possa rimanere sempre tale. Sembra però che oggi ci si voglia congedare dall’umanità. E la strada è proprio quella del rifiuto dei principi morali non negoziabili. 


Quale natura? 


Di più. Siccome il concetto di “natura”, come su accennavamo, è fortemente equivoco, ci si dovrebbe da esso smarcare con una nuova riflessione. Particolarmente dal Rinascimento in poi, passando attraverso la Riforma protestante, natura assume un connotato che va sempre più verso ciò che è fattibile, scostandosi dal suo significato di operazione intrinseca di un ente, quindi dal suo concetto metafisico. Oggi poi natura ci dice soprattutto modificabilità, tecnica applicata per rendere le cose apprezzabili dal proprio punto di vista. Ci si chiede allora: a quale natura riferirsi? Quella materiale, biologica, psichica? Per non rischiare di provocare un’incomprensione generale con gli interlocutori, la Chiesa dovrebbe rinunciare al concetto di “legge naturale” e aprirsi a un nuovo connotato, al concetto di legge morale naturale. Qui l’aggiunta marcata di “morale” a legge – che del resto è presente costantemente nel Magistero o anche se assente non cambia la sostanza –, implicherebbe però uno spostamento dalla natura in sé, da ciò che si dà in se stesso e non può cambiare, a ciò che invece è oggetto non di fissità incomprensibile ma della sfera morale, a ciò che implica quindi la libertà. Dalla natura si dovrebbe passare alla persona e quindi alla libertà che non può far riferimento a nient’altro che alla coscienza. L’aggettivo “morale” provocherebbe quindi, a giudizio di alcuni, un cambiamento paradigmatico, udibile da tutti: si ragiona partendo dalla coscienza, sacrario della verità, e non dalla legge. 

Si tratta anche qui di un sofisma. Partire dalla coscienza implicherebbe non partire più da Dio, datore del bene morale? Libertà farebbe a meno della legge eterna del Creatore? È una declinazione nuova ma del costante problema di come coniugare legge e libertà. C’è un solo modo: Dio, che è lògos e amore, dono, intelligenza e libertà. Solo se c’è un’idea giusta di Dio si risolve il problema di una falsa eteronomia in cui il soggetto dovrebbe rinunciare a se stesso per fare spazio alla legge. 

La legge non è una proiezione del dovere morale voluto per se stesso ma è l’amore di Dio scritto come verità nel cuore della sua creatura. Un amore che rende veri. E solo nell’adeguazione a quest’amore si diventa veri. 

Resta però, infine, un punto importante da sottolineare: cos’è la coscienza morale? In nome della coscienza oggi si rischia anche di opporre l’uomo a Dio, perché sarebbe l’ultima vera istanza, fautrice tanto della legge morale quanto della scelta. Invece, bisogna ridimensionare questo soggettivismo morale dilagante: la coscienza, dice S. Bonaventura, non è il re è solo un araldo, annuncia una verità e la sceglie in ragione del bene che è dato di fare o del male che si deve evitare qui e ora. È un giudizio pratico mediante il quale la ragione umana applica la legge universale e sempre obbligante al caso concreto. Non crea il bene o giudica i principi morali ritenendoli vincolanti o meno nel caso concreto. Se lo facesse si ergerebbe a giudice creatore della norma. Si metterebbe al posto di Dio. 

La coscienza, invece, può giudicare in quanto vi è una verità morale oggettiva che precede. Queste verità morali universali sono i precetti della legge naturale e tra essi dobbiamo enumerare i nostri principi non negoziabili. Se mancano le norme universali e immutabili svanisce anche la coscienza. 

Allora appellarsi a essa contro i valori non opinabili per deciderne di volta in volta la loro obbligatorietà o una possibile gradualità nella loro applicazione è semplicemente falso e moralmente impossibile: la coscienza sarebbe identificata con la libertà e perciò, in ultima analisi, con la verità. La libertà sarebbe l’unica verità e così avremo decretato la tragica scomparsa non solo di quell’uomo che si arroga il diritto di mettersi al posto di Dio, ma di ogni uomo che potrà esserci. Non ci saremo più, per il semplice fatto che è impossibile essere quello che ognuno vuole essere. 


p. Serafino M. Lanzetta, FI

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