venerdì 21 gennaio 2011

Concilio Vaticano II: il problema metodologico dell'approccio

La recente pubblicazione di due libri, uno storico di de Mattei sul Vaticano II e uno teologico di Gherardini sulla Tradizione della Chiesa, ha aperto un proficuo dibattito. Le prime risposte critiche che sono venute, evidenziano però un problema d'approccio metodologico, tanto ai libri, quanto, più in generale, alla questione "Concilio Vaticano II". L'Autore del seguente saggio, ricercatore all'Università di Udine, riconduce i possibili approcci a tre modelli: 1) quello della prassi; 2) quello fenomenico-sociologico; 3) quello ontologico o della verità. Solo quest'ultimo, spiega, è capace di porsi in dialogo con questi due libri.


Il dibattito recentemente avviatosi a seguito (ed a commento) della pubblicazione di due testi, uno di carattere storico (Roberto de Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010) e l’altro di carattere teologico (Brunero Gherardini, Quod et tradidi vobis. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana, Frigento 2010), ha fatto emergere – accanto ad una diversità di valutazioni – un problema centrale. Si tratta della questione della fondazione, ovvero delle categorie intellettuali che reggono (e quindi sostanziano e fondano) i giudizi. Una questione, come già si rileva di primo acchito, che risulta decisiva e che offre l’opportunità per qualche riflessione, che travalica la stessa occasione.

Si tratta di una questione ineludibile per il pensiero (e per il pensiero cattolico in ispecie). Potrebbe dirsi che la questione preliminare che si pare profilarsi – come in casi analoghi, relativi, ad esempio, alla dottrina sociale della Chiesa – è il problema epistemologico (e con esso quello metodologico), precisando, però, che esso equivale, essenzialmente, al problema del rapporto tra pensiero e realtà. Ciò che rileva, in modo imprescindibile, anche allorché la realtà considerata è quella degli avvenimenti storici (in ordine, quindi, alla storiografia) o quella di cui trattano le verità della Rivelazione (in ordine, quindi, alla teologia).

Se il pensiero si pone di fronte alla realtà (quale che sia), in atteggiamento contemplativo, mirando cioè a conoscerla in quanto è e per ciò che è, esso mira a conoscere le cose e la loro essenza (o natura). Pensare in termini di realtà è pensare in termini di verità. La verità null’altro è, se non la realtà in quanto è conosciuta. Se, invece, il pensiero riduce la realtà ad una sua rappresentazione, esso non conoscerà altro che la stessa rappresentazione (propria o altrui). Se ridurrà la possibilità di conoscere le cose alla formulazione di teorie che si inseguono e si contraddicono (nel circuito medesimo in cui si danno) la realtà sarà in effetti identificata con un modello teorico (svuotandosi del suo stesso essere).

In sostanza, come si rileva anche solo ad una prima riflessione, ogni epistemologia (come ogni metodo) rimanda (implicitamente o esplicitamente) ad una ontologia (ovvero ad una considerazione della realtà da conoscere). Pensare una epistemologia, ovvero una prospettiva intellettuale (quale che sia) come metafisicamente ed assiologicamente (cioè, quanto alla realtà ed al valore) neutrale è impossibile. Ogni forma di pensiero presuppone un certo rapporto con la realtà. Ed ogni conoscenza importa (direttamente o indirettamente) una valutazione.

Ora, le diverse attitudini intellettuali che emergono nella contemporaneità possono essenzialmente essere ricondotte a tre possibilità: il pensiero operativo, il pensiero tipologico, il pensiero realistico (e teoretico). È chiaro che ogni visione filosofica comporta la propria concezione del significato della conoscenza. Ma in tal caso essa viene (più o meno ampiamente) esplicitata. Mentre, in questo caso ci si riferisce ad atteggiamenti conoscitivi spesso solo implicitamente assunti. Adottare l’uno, l’altro o l’altro ancora (come qualsiasi altra attitudine intellettuale) per accostarsi ad un testo – di storia, di teologia o di qualsiasi altra disciplina – non è affatto indifferente. Dall’assunzione di una certa attitudine di pensiero – prescindendo, ovviamente, da ogni valutazione delle intenzioni e senza alcuna pretesa di dare giudizi sulle persone – dipende anche la considerazione nei confronti dei testi (e delle tesi).

In questa prospettiva di riflessione, emerge, anzitutto, con chiarezza, una questione di pertinenza: siccome si tratta, rispettivamente, di un testo storico e di un testo teologico, le riflessioni e le valutazioni circa le argomentazioni e le conclusioni di entrambi evidenziano la loro pertinenza se si collocano – materialmente e formalmente – rispettivamente, sul piano storico e su quello teologico. Nel primo caso, le questioni possono riguardare la genuinità e probatività della documentazione ed il rigore argomentativo della ricostruzione. Nel secondo caso, le questioni si possono riferire alla fondatezza – quanto alle fonti della Rivelazione – ed alla correttezza (formale e sostanziale) delle tesi, quanto all’esercizio della retta ragione, anzi della ratio manuducta per fidem, e quindi dell’intellectus fidei. Diversamente, pretendere di valutare un lavoro storico o teologico con categorie (e teorie) estranee a tali discipline, finisce in sostanza per sovrapporre criteri estrinseci all’indole (e quindi al contenuto) dei testi.

Venendo alla prima delle prospettive indicate, occorre dire che il pensiero operativo è caratterizzato da una razionalità subordinata ad un obiettivo da conseguire (nell’ordine della prassi). In questo senso ciò che dirige il pensiero non è la realtà da conoscere (e da valutare) ma lo scopo da raggiungere, la giustificazione (o la negazione) di una tesi o la modifica (in qualsiasi direzione) di un certo stato di cose. Tale attitudine è quella propria delle ideologie, ma si manifesta (obiettivamente, e con diversi gradi di consapevolezza) tutte le volte che una certa prassi diventa il criterio di una certa conoscenza (anche sorretto dalle migliori intenzioni). Ora, valutare un complesso di tesi (in qualsiasi ambito di discorso) in termini di pensiero operativo configura una opzione intellettuale che pregiudica in radice ogni conclusione che ne deriva, giacché ciò che è dirimente non è in questo caso il riconoscimento della realtà (e quindi la verità), ma il vantaggio o lo svantaggio per questo o quel progetto, per questo o quel soggetto (individuale o collettivo), per questa o quella opzione. Pensare in tal modo, in fondo, significa, in fondo, sostituire all’indagine propria delle discipline la preoccupazione del risultato da ottenere (“a favore”… o “contro”….).

D’altra parte il pensiero che può dirsi tipologico, riconduce l’esperienza alla sua rappresentazione attraverso tipi, modelli, paradigmi. Essi attingono a teorie, le quali – proprio in quanto tali – se mirano a ricondurre ad unità e regolarità una determinata categoria di fatti, non mettono in discussione teoreticamente (ovvero essenzialmente) le proprie premesse. Tale prospettiva intellettuale si serve di generalizzazioni empiriche, in luogo di concetti (pur se va ricordato che, in tal caso, i concetti o sono dati per presupposti, oppure surrettiziamente le generalizzazioni empiriche vengono considerate “come se” fossero concetti). Mentre i concetti pensano la realtà per ciò che è essenzialmente, e non per ciò che di essa prevale empiricamente. Tale attitudine è (esemplarmente) quella delle metodologie proprie della sociologia o della psicologia. Queste discipline, come è noto, pongono attenzione all’esperienza riconducendola al risultato dell’elaborazione di modelli, frutto della applicazione delle metodiche stesse di tali analisi (su cui, come è ugualmente noto, i loro cultori sono ben lungi dall’essere concordi). Così che dati e situazioni sono ricondotti – secondo tipi o paradigmi (o prevalenze quantitative) – alla rappresentazione che da tale tipificazione o teorizzazione deriva.

Ora, se tale prospettiva è assunta (al di là della sua specificità e quindi dei suoi limiti) come criterio autoreferenziale (ovvero esclusivo), essa giunge (coerentemente) a surrogare e perciò a sostituire la realtà con una sua particolare rappresentazione. D’altronde, se tale tipificazione si assume come fondamento di altri ambiti di conoscenza, essi finiranno logicamente per dipendere (sotto il profilo dell’argomentazione) proprio da tali tipologie e teorie, le quali non potranno che ricondurre ogni altro campo di conoscenza alla propria stregua. In tal modo, l’opinabilità di teorie, tipologie e paradigmi non potrà che ricondurre a sé ogni conclusione da essi derivata (quale che ne sia il contenuto).

Al riguardo, occorre ancora rilevare che i cultori di tale prospettiva di inquadramento dell’esperienza sovente invocano o presuppongono (in modo più o meno esplicito), come ad essa imprescindibile, l’avalutatività assiologica, ovvero la pretesa di indagare fatti e contesti umani (individuali o sociali) prescindendo da – anzi, tematicamente escludendo – ogni giudizio di valore. Ora, è necessario osservare che l’avalutatività è impossibile in ogni campo di indagine, tanto riguardo al conoscere quanto riguardo all’agire. Nulla vi è di avalutativo nell’esperienza, nella scienza, nella morale, nel diritto e nella politica. L’avalutatività è impossibile tanto nell’ordine dell’agire (per il quale occorre comunque far proprio un fine), quanto in quello del conoscere (per il quale occorre assimilare intellettualmente ciò che è e come è). Ogni sapere presuppone ed implica il valore del vero, senza il quale (implicitamente o esplicitamente) nessuna proposizione potrebbe essere accolta. Anche il dubitabile, l’opinabile o il probabile sono tali in rapporto al vero, e senza di esso semplicemente perdono di significato. Ogni azione presuppone ed implica il valore del bene (che sia reale o apparente, va verificato caso per caso). L’agire umano è l’agire morale. Non vi sono atti umani in concreto che non siano buoni o cattivi (cfr. Tommaso d’Aquino, S. Th., I II, q. 18, a. 9; Duns Scoto, Opus Oxon., II, d. 7; ivi, II, d. 40). Anche la negazione di un giudizio di valore è un giudizio di valore. Anche l’avalutatività presuppone la valutatività, per la quale essa, appunto, è valutata valida, in luogo del suo opposto. La stessa autointerdizione del giudizio di valore presuppone il giudizio di valore per il quale l’autointerdizione pretende di essere giustificata.

Quanto, infine, al pensiero realistico, va detto che tale è essenzialmente il pensiero che si accosta autenticamente alla realtà, la riconosce quale è, e non quale appare o quale vorrebbe che fosse. In tal senso, esso è sempre realistico. Si apre alla realtà, senza alcun altro obiettivo se non quello di capire, e quindi di valutare. In ciò è la premessa di ogni sapere e di ogni scienza. Esso non registra che due possibilità: il vero o il falso. Come per il pensiero pratico (ovvero di argomento morale, e con esso anche giuridico e politico) non vi sono che due risoluzioni valutative: la bontà o la malizia. In entrambi i casi, tertium non datur. Un testo di storia o di teologia potrà sostenere tesi vere o false. Ogni altro aspetto è obiettivamente irrilevante. La validità dell’argomentazione è misurata dalla realtà delle cose, non dalla sua funzionalità (anche al più nobile degli obiettivi). D’altra parte, nessuna catalogazione può surrogare la valutazione. Nessun modello esaurisce la concretezza (e la responsabilità) dell’esperienza. Il pensiero realistico non indietreggia di fronte ad alcuna domanda. Anzi, proprio perché si dispone a conoscere fino in fondo la realtà, non può che escludere il divieto di fare domande. Del resto, è proprio del pensiero che riconosce la realtà quale essa è, interrogarsi sulla natura delle cose, e quindi pensare teoreticamente ed assiologicamente, mirando cioè a conoscere l’essenza ed il valore (delle cose e delle azioni).

In definitiva, nel loro complesso, le diverse considerazioni proposte a partire dalla pubblicazione dei due volumi (di cui si è detto in esordio) sembrano vedere affiorare, come sullo sfondo (tra l’altro), una questione ineludibile ed attualissima. Essa potrebbe essere sintetizzata in questi termini: quali categorie di pensiero sono obiettivamente idonee ad argomentare per scoprire il vero (empirico o essenziale) o per pensare il vero accolto mediante la fede? In sostanza, per considerare il versante teologico, è il problema già affrontato tanto dall’enciclica Pascendi, che pone a tema il nucleo filosofico del modernismo (individuato nell’agnosticismo fenomenistico), quanto dall’enciclica Fides et ratio, che indica la necessità (teoretica) – per rettamente pensare – di andare dal fenomeno al fondamento (e non viceversa).

Se la fede (cristiana) è rationabile obsequium ed è una fides quaerens intellectum, essa esige di essere pensata in termini teoretici (ovvero in termini di verità essenziale). Il prassismo o il fenomenismo (pur con le migliori intenzioni, che, del resto, non rilevano sotto il profilo del valore dei giudizi) non consentono – proprio perché tali – di pensarla in termini di verità.

D’altra parte, se alcuni documenti e atti pongono problemi, perché vi sarebbe obbligo di ignorarli? Rilevare problemi significa incontrare domande che esigono risposte. Ogni opportunità per porre a tema fatti e questioni non può che essere considerata come propizia per l’esigenza di intendere – e quindi di penetrare intellettualmente – andando al di là di ogni opinare. Cercare le risposte, in termini di verità – con sagacia ed con accuratezza, con generosità e con coraggio – costituisce, a ben vedere, l’unica strada autentica, ovvero razionale e teologale, per soddisfare l’esigenza di capire e quindi anche quella di rendere ragione (sotto il profilo storico, filosofico e teologico).

Prof. Giovanni Turco


da: Il Settimanale di P. Pio, 23 gennaio 2011, n. 3, pp. 18-22.

lunedì 17 gennaio 2011

Quel Concilio che ci fa pensare! In risposta a P. Giovanni Cavalcoli

P. Giovanni Cavalcoli, OP, in data 13 gennaio 2011, ha rivolto una lettera aperta a P. Serafino M. Lanzetta, FI, palesando alcune sue titubanze teologiche riguardanti il convegno organizzato dai Francescani dell'Immacolata sul Concilio Vaticano II. Le difficoltà, a cui di seguito risponde il P. Lanzetta, sono riconducibili al modo di intendere il concetto di infallibilità del magistero e quindi all'esercizio magisteriale del Vaticano II, inteso come unicum e declinato nei suoi 16 documenti.



Carissimo P. Giovanni,

la ringrazio per la lettera aperta che ha voluto indirizzarmi, la quale mi dà modo di approfondire i temi a cui allude e di spiegarmi meglio. Non dico che la rottura è stata causata dal Concilio: per sé il Vaticano II non può causare la rottura e la continuità allo stesso tempo, «per la contraddizion che nol consente». Dico che alcuni teologi hanno letto i testi come rottura e altri nella continuità. Questo evidenzia due cose: 1) che si danno due letture teologiche del Concilio (contraddittorie) per il fatto che i testi si lasciano leggere in modo duplice, dato il loro tenore fontalmente pastorale e non definitorio; 2) questo richiede, pertanto, un criterio ermeneutico a priori corretto per leggere, di conseguenza, correttamente il Concilio: questo criterio è la Tradizione ininterrotta della Chiesa. Quando viene espunta la Tradizione si verifica la rottura. Porto un esempio recente. Il padre Paolo Cortesi, missionario passionista in Bulgaria, esultava sul suo blog (cf. http://cosebulgare.blogspot.com/2010/12/e-arrivato-il-vaticano-ii-finalmente.html), perché finalmente era giunta in Bulgaria la traduzione dei documenti del Vaticano II. E fin qui tutto bene. Ma, il motivo vero della sua esultanza, consisteva nel fatto che, dopo l’affaccendarsi critico-conservatore di chi pretende di buttare il Concilio nel Tevere (forse si riferisce a noi), in Bulgaria invece era arrivato il vero Concilio. Dopo aver ricordato che il Vaticano II è un dono dello Spirito Santo, il padre passionista si attesta sulle sue peculiarità: «Il Concilio ci educa ad essere non una Chiesa padrona e paladina della verità, ma un Popolo di Dio che cammina nella storia insieme a tutta l'umanità». «Il Concilio ci insegna che la liturgia non è assistere alla ripetizione sacrale dei gesti che compie la casta sacerdotale, ma la celebrazione della salvezza da parte di tutto il Popolo di Dio». «L'ecumenismo non è ricondurre all'obbedienza pontificia i disgraziati scismatici, ma la ricerca di comunione da parte di tutti i cristiani». Infine, ci vien ricordato che il Concilio ha scoperto la Parola di Dio. E tutto quello che la Chiesa era prima? La sua dottrina, la sua vita? Il Vaticano II sarebbe, in realtà, il vero volta-pagina. Qui si vede – è un esempio tra tanti – che una carenza spaventosa del concetto di Traditio Ecclesiae, fa scadere in una visione stranamente dogmatista del Vaticano II. Eppure quegli ambiti rammentati dal padre Cortesi sono quelli che oggi maggiormente soffrono a causa della secolarizzazione.

Ma veniamo nuovamente a noi. Il nostro convegno si è attestato non sulla verifica delle nuove dottrine del Vaticano II, ma su un approccio (iniziale e a modo di status quaestionis) di tipo storico filosofico teologico. Quello teologico lo si potrebbe definire “fondamentale”, volto a verificare la natura del Concilio e vederla riflessa nei vari documenti (non in tutti ma nei principali), che sono 16 e sappiamo esser divisi in Costituzioni (di cui solo due godono dell’appellativo “dogmatiche” e presentano un insegnamento dottrinale: Lumen gentium e Dei Verbum), Decreti e Dichiarazioni, con accenti e per un esercizio eminentemente pastorali. C’è una cosa comunque che unisce la diversa tipologia magisteriale del Vaticano II (diversa già in ragione di una distinzione tripartita che compare in questo modo solo nel Vaticano II), ed è il tenore dei documenti: un tenore fontalmente pastorale, di annuncio della fede e non di una sua definizione, che esprime così il fine stesso del Concilio. Così volle Giovanni XXIII, così confermò Paolo VI.

Da quanto lei dice, emerge un dato fondamentale, che è il problema-chiave del Vaticano II: qual è l’esercizio magisteriale (complessivo) del Concilio? Lei vede il Vaticano II come un unicum, giustamente, perché un concilio, ma, a mio modo di vedere, si spinge più in là del concilio, quando entra in merito all’infallibilità, non distinguendo nel tutto le sue parti, ovvero i diversi livelli magisteriali del Concilio (stabiliti egregiamente da Gherardini).

Mi spiego riassumendo schematicamente lo status quaestionis sull’esercizio magisteriale del Vaticano II, riconducibile a 5 posizioni teologiche: 1) esercizio del magistero straordinario solenne; 2) esercizio del magistero ordinario universale; 3) esercizio del magistero autentico; 4) esercizio di un magistero omiletico; 5) esercizio di un magistero differenziato. Tra questi teologi ve sono anche alcuni insospettabili di conservatorismo o di tradizionalismo (cf. F. Kolfhaus, Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate” [tesi dottorale presso l’Università Gregoriana], Lit, Berlin 2010, pp. 23-34).

Fin qui la teologia, che verifica, pur con accenti diversi, un magistero sì solenne (quanto alla forma) ma ordinario (quanto al normale esercizio). Il Magistero stesso, specialmente nella persona di Paolo VI, ha riassunto l’intera portata magisteriale del Vaticano II, definendolo magistero ordinario autentico (cf. Allocuzione del 7 dicembre 1965 e Udienza Generale del 12 gennaio 1966). Ora, il magistero ordinario non è infallibile perché è magistero, sia pur di un concilio, ma solo quando è reiterato e quando appura la definitività di una dottrina di fede o di morale, anche se non definita ma definitiva. L’infallibilità nel Vaticano II è solo di riflesso rispetto a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive; questa infallibilità, sussiste poi solo in alcune dottrine ma non nel Concilio in quanto tale, altrimenti sarebbe stata inutile la precisazione del Segretariato del Concilio per la giusta lettura di Lumen gentium, posta come Nota previa. Riporto i due punti salienti di detta nota che ci riguardano: «Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica» (AAS 77/1 [1965] 72).

L’infallibilità si rivela solo nel magistero obbligante tutta la Chiesa, che richiede un atto di fede teologale, in ragione appunto della irreformabilità della dottrina. Per le altre dottrine bisogna tener conto dello spirito (della natura e del fine) del Concilio, e vedere in unità la materia trattata e il modo di esprimersi. Credo sia fuori luogo attribuire sic et simpliciter la definizione di infallibile alle diverse dottrine/insegnamenti del Concilio. Il magistero ordinario perché autentico però rimane vincolante e richiede l’ossequio dell’intelletto e della volontà, pur essendo soggetto ad eventuali revisioni con l’ausilio della teologia, in ragione di una comprensione accresciuta dei dati (si veda su questo il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum veritatis, del 24 maggio 1990, nn. 22-24).

Dire comunque che il Vaticano II ha una natura pastorale non è squalificare il Concilio e non significa non riconoscere i suoi insegnamenti dogmatici, ma prevenire un abbaglio, oggi diffuso sia tra i progressisti che tra i tradizionalisti, che porta a leggere il Vaticano II alla stregua del Concilio di Trento o del Vaticano I. Non ci si accorge della peculiarità del Vaticano II, ovvero della sua natura, del suo fine e del diverso tenore magisteriale dei suoi documenti, e si finisce col dogmatizzare tutti i suoi insegnamenti. Questo però è fatale: così, o si fa iniziare la Chiesa dal Vaticano II o si cestina il Vaticano II per far vivere la Chiesa. Il problema rimane fino a quando non ci si decide a tralasciare questa ermeneutica rigidamente tradizionale di approccio al Vaticano II, iniziando a vedere che il nostro concilio è sui generis: inaugura un “nuovo” modo di insegnare e di esser concilio per la Chiesa, modo che darà un’impronta caratteristica al post-concilio: una scelta più pastorale per dire la dottrina di fede della Chiesa. È su questo che ci dobbiamo interrogare.

E vengo così ad un ultimo punto, alle novità dottrinali di cui parla. Non sono d’accordo sul fatto che le novità in quanto tali farebbero avanzare la Tradizione. Semmai la comprensione della fede su un piano teologico, ma per il progresso dogmatico è necessaria la definitività della dottrina. Qui leggo un dato simile all’infallibilità: per lei le novità dottrinali sono per sé un avanzamento della Tradizione e pertanto bisogna collocarsi ora dopo di esse per riconoscere la Tradizione nel suo stadio avanzato in ragione del Concilio. Sembra allora che la verifica delle innovazioni non serva o che, se occorra, si pregiudichi la bontà del Concilio. E questo per il fatto che le innovazioni sarebbero infallibili.

Invece, a mio modesto giudizio, bisogna collocarsi anche qui su un piano diverso. Non sono le innovazioni che, in quanto tali, fanno avanzare la Tradizione. È piuttosto la Tradizione, che progredendo in ragione del nuovo, in uno sviluppo omogeneo, dà alle cose nuove lo statuto teologico di dottrine o di insegnamenti, in ragione di quanto detto poc’anzi in riferimento al magistero, statuto che può ascendere fino al grado ultimo di irreformabilità. È la Tradizione ovvero la Chiesa-mistero, che accoglie le innovazioni ma al contempo le precede nel suo esserci già, a livello ontologico e cronologico. Questo può apparire un pensiero fissista, ma è quanto dire: c’è prima la Chiesa e poi la sua comprensione, prima Dio e poi l’uomo. Non è per il fatto che siamo di fronte ad un assise conciliare insegnante in modo solenne che avanza necessariamente la Tradizione. Questo certo lo impariamo col Vaticano II, ma neppur possiamo troppo esulare questo concilio dalla tradizione storica dei concili ecumenici. Infatti, anche il Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), non definì alcun dogma ma emanò solo pochi decreti disciplinari. Non di meno però è un concilio ecumenico (difeso dal Card. Brandmüller), ma non per questo si può definire infallibile.

È proprio sul concetto di infallibilità da lei esposto che non mi ritrovo. Lei dice che per avere l’infallibilità «basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico». Allora dovremmo anche dire che, ad esempio, Presbiterorum ordinis insegna in modo infallibile, mentre, in verità al n. 16 c’è una svista storica notevole: sembra che non conosca il dato antichissimo “continenza-celibato”, e mette sullo stesso piano la tradizione latina e la deroga al celibato per i presbiteri della Chiesa greca, deroga nata dopo il trullano, ma in seguito ad un vero imbroglio. Ormai la ricerca storico-teologica è progredita e si dovrebbe provvedere a perfezionare questo passaggio. Faccio anche un esempio al contrario: se Sacrosanctum concilium fosse infallibile, l’attuazione della riforma liturgica, avvenuta spesso e con facilità in deroga allo ius divinum della liturgia, e andando molto al di là di quanto previsto da detta costituzione, sarebbe un’eresia. Si potrebbe dire questo? No, per il fatto che Sacrosanctum concilium non è infallibile ma è una costituzione con una natura pastorale, che apre ai possibili adattamenti.

Lei cita poi la Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, definendolo un testo infallibile, dunque dottrinale. Invece, si tratta di in testo che non è né dogmatico né disciplinare, ma contiene norme pratiche di comportamento in materia di libertà religiosa. Questa dichiarazione vuole dare delle norme pratiche e non intende affatto allontanarsi dalla dottrina cattolica sulla libertà religiosa (cf. AS IV/1, 433). Gli abusi, spesso, hanno fatto leva proprio sulla sua infallibilità per accentuare il concetto di libertà religiosa soggettiva, fino a scadere in un relativismo religioso, contro il perenne insegnamento della Chiesa circa il dovere morale di riconoscere la verità e di professarla solo nella Persona del Verbo incarnato. Certo, la libertà religiosa di cui parla il Vaticano II è uno sviluppo del concetto stesso di libertà, che tiene conto del dato della modernità, ma non esaurisce il contenuto della dottrina classica: è un di più, che però necessita della Tradizione per essere compreso, dato il suo fine volto al dialogo con gli uomini.

Vedo una certa frizione tra dottrina e prassi in materia di libertà religiosa, proprio nella sua esecuzione pastorale di Assisi. Non si può dire che Assisi cambia la dottrina della Chiesa in materia di libertà religiosa. Assolutamente no. Ma è una scelta pastorale che deriva dal Vaticano II, da questa dichiarazione e soprattutto da Nostra aetate, per affermare il rispetto e la verità della libertà religiosa di ogni uomo. Al contempo però questa adunanza porta in sé un dato dottrinale: qual è la vera religione? La pastorale che è il fine di Assisi e della Diginitatis humanae, qui, come sempre, incontra la dogmatica: solo Cristo è la verità. Come coniugarle? Il Vaticano II non ce lo dice, ma lascia spazio ad interventi successivi. Il Pontefice opta ora di nuovo per Assisi, pur conscio delle notevoli problematiche sincretiste che ad esso furono connesse in ragione dello “spirito d’Assisi”, da lui denunciato perché funesto quanto lo “spirito del Concilio”. Nessun però potrebbe dire che Assisi cambia la fede della Chiesa nella verità di Cristo unico Salvatore. Se Dignitatis humanae fosse infallibile, non si avrebbe neanche più una certa libertà nella sua attuazione pastorale, il cui giudizio prudenziale spetta al magistero.

In questa tensione tra dogmatica e pastorale nel Concilio, si nasconde, a mio modo di vedere, tutto il problema ermeneutico del Vaticano II. Io per infallibile intendo non-fallibile, irreformabile: allora ben poche sono le dottrine che si possono dire tali.

Direi allora che bisognerebbe leggere “infallibile” nel senso più rigoroso e classico della teologia, mentre il Concilio Vaticano II, quale unicum magisteriale, in modo più flessibile ed articolato, distinguendo i diversi piani, in ragione del progresso teologico verificatosi grazie allo stesso Vaticano II. Gli atti del nostro convegno, che pubblicheremo, ci aiuteranno sicuramente per un discorso più accurato.

Le rinnovo i sensi di stima ed amicizia nei nostri Santi Padri Francesco e Domenico

p. Serafino M. Lanzetta, FI

Firenze, 16 gennaio 2011