mercoledì 20 febbraio 2013

Non può esserci carità senza fede


Il Pontefice, la Quaresima e il nuovo annuncio del Vangelo


Moretto da Brescia, «La Fede» (1545-1550)
(Fonte: «L'Osservatore Romano», del 20 febbraio 2013, p. 5).


Nel Messaggio per la Quaresima Benedetto XVI propone una riflessione decisiva sul rapporto fede e carità. Si tratta di un tema caro al Pontefice, che ritorna sovente nel suo magistero, avente come fondamento lo stretto nesso tra ragione e amore. Fede e carità trovano la loro unità nel mistero di Dio, creduto e amato; ragione e amore ci consentono di vedere la totalità dell’essere e quindi di avvicinarci a Dio, contemplandolo come Lògos-Amore. Una circolarità che è unità fontale e amore in pienezza. 

Non si dà né una fede senza la carità, né una carità senza la fede. La fede è per la carità la misura, la verità dell’amore, mentre la carità è per la fede pienezza della verità, appagamento, svelamento dell’intimo anelito a Dio, passando dalla sua conoscenza all’amore. Al dire di Guglielmo di Saint-Thierry (1075-1148) è la carità stessa che ha due occhi, la ragione e l’amore. 

Si entra nella via di Dio per mezzo della fede, che è principio della vita nuova. È la fede che rivela Dio all’uomo e con la fede l’uomo risponde a Dio, lo riconosce suo Creatore e Signore. Colui che si svela è in se stesso amore, dono. È alla porta dell’intimo dell’uomo e bussa perché gli si dia pieno accesso. Ecco dunque la carità che completa la fede, dandole, nell’afflato della relazionalità, la vera gioia dell’essere e del vivere in Dio. Così si alimenta l’amicizia con il Signore e da questo essere-con il cristiano attinge la sua carità verso il prossimo. 

Quanto più salda è la fede tanto più ricca è la carità che, colmando l’uomo della presenza di Dio, si riversa, come un traboccare, sugli altri. Non possiamo dare quello che non siamo. Diamo agli altri, nella carità fattiva e generosa, quello che abbiamo attinto dalla fede operosa. Altrimenti daremo solo noi stessi, principiando da quello che S. Bernardo definisce amor carnalis

Senza la fede la carità non sussiste come tale. Potrà risultare anche una bella opera sociale, ma in fondo anonima, che arranca tra il desiderio totale di bene e il poter solo offrire quello che noi reputiamo esser tale, un bene che non abbiamo attinto da Dio. Nella misura in cui crediamo nel Deus-caritas riconosciamo il vero bene e diamo agli altri sempre ciò che è vero e buono. 

Così il Pontefice evidenzia questa intima connessione: «La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è “camminare” nella verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s)». 

Perciò, mai solo la fede contro la carità, fino a disprezzare le opere buone e così isolarsi in una sorta di auto-redenzione: è il rischio del «fideismo», né solo la carità senza la fede, in cui il cristianesimo viene ridotto a una mera organizzazione, dove si fanno tante cose ma senza una chiara identità: è il rischio «dell’attivismo moralista». 

Ciò che è nocivo è comunque la mancanza di fede, perché andrà a inficiare lo stesso incipit cristiano. Dove la fede è boccheggiante, vaga, l’apparente carità è prone a un moralismo relativista. La fede stessa diventa moralismo. Si potrà raggiungere notevoli accordi di rispetto e di cooperazione, ma non si potrà più dire chiaramente la verità. 

Ultimamente il dibattito sui valori non negoziabili, scambiati con surrogati etici opinabili, ha come sottofondo una scorretta idea di carità senza la fede e la verità. La Chiesa dovrebbe essere pronta a fare un passo indietro per capire le reali esigenze dell’uomo e distinguere ciò che è più cogente da ciò che non lo è. Le si chiede, in nome del “bene comune”, di venire a un accordo. Dove manca un chiaro punto di partenza, che è la verità, rispetto alla quale non ci sono precedenze perché tutto il vero è sempre primo, la carità è suscettibile delle più svariate interpretazioni. 

La fede non può arrestarsi all’aspetto noetico, accontentarsi di una conoscenza superficiale o di un’adesione formale a Cristo. Necessita di vivere di Lui, di contemplarlo e così di portarlo attraverso le opere delle proprie mani. Il Pontefice ci dice che contemplazione e azione «devono coesistere e integrarsi». 

La minaccia del loro sfaldarsi è tale che facilmente da una fede senza la carità si passa a una carità senza la fede. Diversi autori hanno provato a individuare l’essenza del cristianesimo, quel nucleo indispensabile che permetterebbe di accantonare il resto. Tale nucleo normalmente viene ravvisato nel “messaggio etico” del Vangelo. Rimane paradigmatica la posizione di A. von Harnack, secondo il quale «l’intero evangelo si può assumere all’interno di questa dimensione: lo si può configurare come un messaggio etico senza per questo sminuirne il valore». Vigerebbe un èthos contro il culto, contro la contemplazione e l’adorazione. Così non sarà importante se Gesù è veramente il Figlio di Dio – per Harnack è improbabile – ma ciò che ha insegnato nella via del bene, il cui unico fondamento è l’amore. 

Nel nostro contesto culturale, attraversato dal pensiero debole, permane ancora questa grande tentazione di ridurre il cristianesimo a una religione del bene senza la verità, perché quest’ultima non è conoscibile. Ci sono verità soggettive e parziali ma la verità non esiste. A giudizio di alcuni risulterebbe arduo affermare l’unicità salvifica di Cristo rispetto alle altre religioni senza scadere nel pericolo che questa “pretesa” diventi intransigenza e intolleranza, del resto estranee alla vita cristiana. La via del bene sarebbe più ampia e ci permetterebbe di risolvere in nuce il dilemma: nella carità incontriamo l’altro, tutti, senza la necessità di indicare una verità che potrebbe dividerci. Il Vangelo stesso ci inviterebbe a inverare il momento veritativo in quello esperienziale e relazionale, perché, del resto, anche il giudizio universale sarà basato sulla carità (cfr Mt 25, 31-46). Mentre però si dimentica che nello stesso giudizio il Signore richiederà anche la confessione della fede in Lui, il suo riconoscimento davanti agli uomini (cfr Mt 10,32-33 e Lc 12,8), si postula un’impossibile scissione in Dio tra onnipotenza e bontà. Fede e carità non si oppongono come ragione e amore non sono divisi, ma si implicano vicendevolmente. Senza la ragione l’amore è vuoto e senza l’amore la ragione è fredda necessità. Senza la verità del Vangelo la carità si spegne. Perciò, la carità più grande, ci ricorda il S. Padre, è proprio il dono della fede, è l’annuncio del Vangelo a tutti gli uomini. La nostra evangelizzazione dovrà imperniarsi proprio su questo binomio indissolubile, che lumeggia l’essere di Dio in se stesso. 

Possiamo ancora chiederci: si darebbe mai una carità senza la grazia santificante e quindi senza la fede? Come in Dio onnipotenza e amore, lògos e agàpe, sono uno così nell’uomo credente fede e carità fanno unità con la speranza nella grazia santificante. Non c’è mai la carità senza la fede pur potendo avere una fede senza ancora la carità. 

Di qui l’analogia del Pontefice con il sacramento della fede, il Battesimo e il sacramento della carità, l’Eucaristia. La fede è ingresso nella dimora interna di Dio. L’Eucaristia è il cuore. Senza la fede non si comprende l’Eucaristia, che per sé è tensione verso di Essa. Senza la carità non si sviluppa il dono del Battesimo, col rischio di rimanere congelato al suo inizio, fino a inaridirsi. 

È una grande sfida della nuova evangelizzazione collocare in unità fede e carità. Siamo invitati a dare a tutti per amore la Verità, il Cristo, e a mostrarlo non con le parole ma con i fatti, con le opere della verità. 

La fede ci svela la verità di Cristo, Amore incarnato. La carità ci fa fruire di quest’Amore. Così tutto converge nell’amore e si radica in Dio per sempre. 


Serafino M. Lanzetta

lunedì 18 febbraio 2013

Le dimissioni di un Papa. Tra sconcerto e profezia



(Su Il Settimanale di P. Pio, n. 8, del 24 febbraio 2013).


Ha destato in tutti sgomento, dolore, smarrimento, la notizia delle dimissioni del Pontefice. Qualcosa d’inaspettato, ma non estraneo ad una sua eventualità. Infatti, il Papa, nel libro intervista con Peter Seewald, Luce del mondo (2010), aveva ventilato questa possibilità, qualora lo stato fisico e spirituale avesse impedito al Vicario di Cristo di continuare a tenere fermo il timone della Barca di Pietro. 

Su questa sua incapacità fisica ma soprattutto spirituale, interiore, ha concentrato la sua attenzione Benedetto XVI, nel dire, dinanzi ai Cardinali radunati in Concistoro, la sua volontà di «rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di S. Pietro». Qualcosa di completamente nuovo, ma per il bene della Chiesa, per ridarle un nuovo vigore «sia del corpo, sia dell’animo»; quel vigore diminuito nel Papa, tale da fargli riconoscere, in tutta umiltà, l’incapacità di amministrare il munus petrinum, quel servizio universale all’unità della Chiesa e all’annuncio del Vangelo di salvezza nel mondo intero. 

Il Papa non teme il ludibrio, il giudizio del mondo, dinanzi ad un gesto che non nasce da un atto di viltà, da un gran rifiuto, ma da motivi più profondi, che hanno contribuito a debilitarlo soprattutto nell’animo. Una sorta di martirio spirituale. 

Proprio su questo filo rosso martiriale si può ripercorrere l’intero pontificato di Benedetto XVI, che sin dai suoi primi sussurri ha conosciuto una resistenza e un’opposizione davvero inaudite. Nella celebrazione iniziale del suo ministero di successore di Pietro, invitò tutti i fedeli a pregare per lui, affinché avesse sempre avuto la forza di non indietreggiare davanti ai lupi. E di lupi ce ne sono stati, che hanno levato forti ululati, dentro e fuori la Chiesa. Soprattutto dentro. 

Ciò che ci ha lasciato sgomenti, e che Benedetto XVI stesso ha sottolineato nel suo viaggio a Fatima (maggio 2010), è che la crisi oggi investe la Chiesa nel suo interno. Non si tratta solo di osservare una Curia sempre più sfilacciata e all’ombra degli intrighi, ma di vere e proprie resistenze dottrinali accanto a desistenze morali. Il vero nemico è il peccato nella Chiesa, ebbe a dire il Papa. E di questo nemico si fece valoroso combattente. 

Essere nella Chiesa, ha ripetuto il Papa in diverse ordinazioni sacerdotali e anche episcopali, non significa mirare a un potere egemonico o carrieristico, usare la Chiesa come piedistallo per innalzarsi sugli altri e bramare il potere, il successo, quasi star dello spettacolo ecclesiastico, ma diventarne servi, lasciarsi condurre, come poveri strumenti, dalle mani del Signore. Essere in Cristo per la Chiesa, per gli altri. Benedetto XVI si presentò all’inizio come «un umile lavoratore nella vigna del Signore» e questa umiltà unita alla fermezza ha voluto sempre mostrare. Ora è logorato e rinuncia. Può sembrare arrendevolezza, sconfitta. Ma è sotto un’altra luce che dobbiamo guardare. 

Il discorso di Ratisbona su fede e ragione con un accenno a Maometto, la remissione della scomunica ai quattro vescovi della FSSPX, lo scandalo della pedofilia, la dichiarazione di Pio XII come venerabile, furono alcuni motivi-chiave, utilizzati con astuzia per colpire direttamente la persona del Papa, fino a ipotizzare un possibile processo in tribunale per colui che fu definito “datore di lavoro” dei preti pedofili, mentre proprio l’allora Cardinale Ratzinger si era impegnato per il cambiamento e l’irrigidimento della legislazione disciplinare in materia di abusi sessuali. 

Uno degli atti sicuramente più lungimiranti del suo ministero di Vescovo di Roma e di Pastore di tutta la Chiesa fu la promulgazione del Motu proprio Summorum Pontificum (2007), con il quale si dava a tutti i sacerdoti la possibilità di celebrare la S. Messa secondo il Messale del b. Giovanni XXIII. Quel gesto, che in verità mirava a «una riconciliazione interna nel seno della Chiesa», divisa proprio sulla percezione della liturgia e in definitiva sulla stessa teologia della Chiesa, trovò una fortissima opposizione, non ancora sopita. Si parlò di possibili spaccature ecclesiali, e invece esse erano già serpeggianti, ma per altre cose e ben gravi. 

Per alcuni, per molti, la Chiesa inizierebbe con il Concilio Vaticano II e perciò tutto quello che c’era prima, la stessa S. Messa, sarebbe stato abolito per dare inizio al nuovo cattolicesimo. Sembra strano, ma di qui il sentore di una notevole crisi di fede: una S. Messa che dall’epoca di S. Damaso, di S. Gregorio Magno, fino al 1969 aveva alimentato la fede e la pietà, improvvisamente sarebbe diventata addirittura pericolosa. Perché? Cosa era successo? C’è senza dubbio una notevole componente che a noi poveri mortali sfugge, ma è tutto lì il domandarsi pensierosi quanto questo clima abbia influito sullo stato d’animo del Pontefice, spesso lasciato solo a dover dare ragione del suo operato. Ma con grande umiltà fece anche questo. 

Quello di Benedetto XVI resta un grande pontificato, che, certo, ora apre una pagina nuova nella storia della Chiesa, tante domande nuove, tanti possibili scenari, ma che lascia i presupposti per una riforma che possa continuare a dare i suoi frutti. Una riforma della Chiesa, nel suo seno. 

È lo Spirito di Dio che guida la Chiesa, di questo siamo certi. Le porte degli inferi non prevarranno: di qui la nostra serena fiducia. La Chiesa è di Cristo, è il suo Corpo. 

Con questo però non nascondiamo un momento d’incertezze, anche mondiali. È sorprendente vedere quanto la notizia delle dimissioni del Pontefice abbia catturato l’attenzione mondiale, quasi a voler dire: e ora chi sarà per noi faro in questo oceano del mondo? A chi ci appiglieremo nei marosi della cultura relativista e permissivista? Anche i tanti nemici di Ratzinger avranno avuto un momento di esitazione. Così cresce la nostra fede: il Papa è il vicario di Gesù Cristo, è veramente l’unico punto di riferimento non solo per la Chiesa ma per il mondo intero. È colui che fa unità e che costruisce questa unità. 

Quest’unità fu voluta sempre e senza compromessi nella verità. L’amore alla verità e la verità dell’amore, ragione e amore, fede e carità, sono gli assi portanti di questo magistero. Al di sopra di tutto, poi, Dio, l’annuncio di quel Dio vicino che ci ha svelato il suo Volto e abita con noi, il Dio-Amore. Quello di Ratzinger è stato un pontificato teocentrico. 

Dicevamo di un filo rosso martiriale. La lectio divina tenuta a braccio da Papa Ratzinger, l’8 febbraio scorso, ne costituisce una sorta di sigillo. Diceva il Papa commentando la prima Lettera di Pietro: 

«Penso che, andando a Roma, san Pietro […] si era ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni: “Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani” (cf. Gv 21,18). È una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo “estendere le mani”, per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma, certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio, Roma è anche luogo del martirio. Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse». 

Il primato ha un contenuto martirologico. Una forma nuova, un’altra forma di martirio. È difficile, a primo acchito, coniugare questa profonda consapevolezza del nostro Pontefice e la rinuncia al ministero. Ma è proprio in quest’ottica che va letto non solo l’intero pontificato di Ratzinger, ma sicuramente anche questa ultima scelta: morire, colpito a morte, fino a non morire, e così portare quel frutto nuovo per il bene della S. Chiesa. È questo che veramente speriamo. Grazie Padre Santo! 


p. Serafino M. Lanzetta, FI

domenica 17 febbraio 2013

L'uomo non può vivere di solo pane



Ascolta l'omelia di P. Serafino M. Lanzetta, nella prima Domenica di Quaresima.


La prima Domenica di Quaresima ci fa entrare subito nel clima penitenziale di questo tempo forte di conversione e di penitenza. 

Il Vangelo racconta le tre tentazioni che Gesù subisce dal diavolo, tipo di ogni seduzione diabolica. Gesù non doveva essere tentato perché in Lui non c’è l’inclinazione al male, né alcun peccato. Si lascia tentare per dare a noi l’esempio di come vincere. 

La prima tentazione riguarda il materialismo. Il diavolo dice a Gesù e a ogni uomo di cambiare le cose create secondo le sue esigenze: trasforma le pietre in pane, trasforma le cose create in beni per te, per le tue esigenze, per il tuo benessere. La campagna “contro l’omofobia”, per la legalizzazione delle coppie omosessuali, è proprio questa pretesa. 

Poi la seconda tentazione: la vanagloria. Il diavolo ci darebbe tutto, l’impero in questo mondo, ma a una condizione: adorarlo. Chi adora la ricchezza, il piacere, la materia, non adora delle cose ma il principe di queste cose, Belzebul. 

Infine la terza tentazione: l’orgoglio e l’autoreferenzialità. Il diavolo ci dice di non preoccuparci molto di Dio ma di vivere per noi, come ci piace. Qualora ci imbattessimo in qualche pericolo per la nostra vita Dio comunque ci soccorrerebbe, perché Lui è buono e si adegua a noi. Il diavolo ci dice di vivere per noi stessi e anche Dio ci sarà sottomesso. 

Come si vincono le tentazioni? Come ha fatto Gesù: nutrendosi della Parola di Dio, la Parola della Verità. Non viviamo solo di pane e per il pane ma per Dio. Dobbiamo vivere di Dio e a Lui chiediamo anche il nostro pane.