domenica 25 dicembre 2011

L’Europa, l’Italia, la crisi economica e la sfida del cristianesimo


È ormai divenuta famosa quella frase che Massimo d’Azeglio pronunciò all’indomani dell’unificazione d’Italia: «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». Sì, famosa perché la si ode ora di nuovo anche se al contrario: «Abbiamo fatto gli italiani (o pensavamo d’averli fatti), ora dobbiamo fare l’Italia». La rifacciamo. Stiamo sentendo, in questi ultimi giorni, in modo sempre più insistente, degli slogan, che recitano pressappoco proprio come quello: “Salviamo l’Italia”, “Salviamo l’Europa”, “Salviamo l’euro” (sic!). Salviamo l’euro o piuttosto la gente che con quell’euro vive? Quando le ideologie pullulano non possiamo che sentire slogan, che poi si incrociano, ma che sono sempre gli stessi. Il problema, allora come adesso, non sono gli italiani, che già c’erano: pressappoco dall’incarnazione di Dio in questo mondo e con tutto il retaggio culturale della romanità latina, ma il tentativo di rifondare una nazione senza la sua identità cristiana, senza i valori irrinunciabili, che fanno di un popolo non una landa solitaria di individui massificati dai soldi, ma un gruppo di persone che si riconosce in una cultura perenne ed immutabile nei suoi principi-primi.

È sotto i nostri occhi la crisi economica nella quale versa la nostra Italia e l’Europa, la quale, però, a differenza degli allarmismi che gridano da un capo all’altro, non è essenzialmente e primariamente una crisi economica o di soldi, come la si fa passare. L’economia non sono i soldi, anche se restano lo strumento di scambio principale. Perciò non si guarirà mai dalla malattia propinando la stessa malattia. I soldi non guariscono i soldi, perché nulla è causa di se stesso. Solo Dio è per se stesso. La crisi che è sotto i nostri occhi è molto più profonda; è come la punta di una massa di ghiaccio che affonda nella acque ormai intorbiditesi del nostro modo occidentale. L’economia crolla perché mancano i valori stabili ed imperituri che la sostengono, che sostengono cioè la vita dei cittadini, i quali sono i primi attori in un libero mercato, attori nella produzione, nello scambio dei beni, negli investimenti. La vita dell’uomo non ha più un valore, e di conseguenza, ciò che da essa promana, o come si vuole oggi, ciò che essa produce, non ha valore.

Un’economia regola e studia il potere di produrre beni e servizi a favore dei singoli e per la società. Di questa il PIL è un indice di crescita, di arresto o addirittura di spaventoso calo, come il nostro. Ma lo stesso PIL non è una semplice osservazione e un calcolo del denaro degli investimenti, ma una somma di più fattori che generano l’incremento o il suo contrario. E tra questi è di notevole importanza la scelta della famiglia, il suo consumo e il suo potere di investimento. Come potrebbe crescere però questo prodotto interno di una nazione quando la famiglia va a scomparire? Quando alla famiglia si sostituisce un modello “fai da te” di temporanea sistemazione, dettato spesso da esigenze effimere, con contratti a breve durata (si pensi alla convivenza come alternativa al matrimonio), o se non addirittura unioni che solo inneggiano all’orgoglio della diversità? Ma, se andiamo ancora più a fondo, c’è un altro problema più radicale, indice di una crisi che farà azzerare sempre di più il potere d’investimento di una nazione: come può crescere il PIL se si elimina il fondamento di ogni possibile crescita economica, perché fondamento assoluto di ogni bene, che è la vita umana? Se manca la persona o questa non ha una sua dignità inviolabile, come si incrementa il reddito? Se l’Italia si autocondanna a dover importare manodopera dall’estero, perché i suoi figli stanno morendo e più non ne nascono, come potrà superare il deficit nazionale? Con che cosa, con chi si supera la crisi? Con quali italiani? Cosa diventerà l’Italia? Questi problemi però non sembrano interessare i nostri rappresentanti politici e tecnici.

È sotto i nostri occhi il predominio della materia, che però quando è ragione di sé diventa massificatrice della dissoluzione di ogni bene. Il materialismo post-cristiano, vuoi rigurgito di un comunismo accentratore, vuoi di un capitalismo selvaggio, è la causa di questa crisi. Il materialismo è andato in crisi, si frantuma, ma l’Italia non è capace di opporvi il vero potere, i beni morali eterni. Così i suoi ultimi rigurgiti sembrano ingoiarci.

La crisi che vive l’Italia e l’Europa, infatti, non è una crisi di soldi, è una crisi esistenziale e di valori, che in verità possono fondare in modo stabile l’assetto della convivenza sociale; valori che il nostro Pontefice definisce non-negoziabili. Dobbiamo rammentarli, perché c’è sempre il rischio che qualche uomo di Chiesa ci dica che, in fondo, ostruiscono il vero dibattito sociale nel rispetto delle diversità, e perciò sarebbe meglio tralasciarli: la vita inviolabile, dall’inizio al suo naturale tramonto, la pari dignità tra l’uomo e la donna, la precedenza della persona rispetto al capitale e all’economia, il principio della sussidiarietà, in cui lo Stato è al servizio della famiglia e mai viceversa, (altrimenti si cade, come già avviene, nello statalismo), il primato della famiglia, fondata sulla verità stabile e feconda del matrimonio tra un uomo e una donna, la libera scelta dei genitori dell’educazione culturale da impartire ai lori figli, senza discriminazioni statali. Solo così la società opera in vista della persona, e quindi di sé, e non in vista del denaro; solo così la persona diventa un nesso indispensabile tra la famiglia e la società e quindi lo Stato. La pluralità culturale viene dopo i valori fondamentali. Prima questi, e poi tutto il resto. Altrimenti non c’è umanità.

L’economia è un bene al servizio della persona, della famiglia, e quindi dello Stato. Giammai dello Stato, quindi della famiglia, e solo alla fine della persona. La nostra Italia, che ha smarrito la sua identità cristiana, come pure l’Europa perdendo di vista le sue radici cristiane, ha finito con l’invertire i beni: al primo posto c’è la ricchezza e la produzione e all’ultimo la vita e la famiglia. Purtroppo, questo capitalismo disumano è destinato ad infrangersi, come è avvenuto, sullo scoglio di una verità, la verità iscritta nell’uomo e nella sua coscienza: se manca la vita e l’uomo, l’economia crolla, non ha un fondamento, sarà semplicemente basata sui soldi, che però crollano al primo crack finanziario di turno, o quando i grandi stabiliscono che è giunta la fine. Anche i manovratori dell’economia mondiale, i poteri forti, sanno bene che non bastano i soldi per sollevare una nazione (o per seppellirla). Per questo diventano spesso ideologi di un modo di vivere, di uno stile di pensiero, diventano paladini di una cultura di morte, con la quale edificare una nuova umanità senza l’identità cristiana.

In realtà, solo se al centro c’è il valore intangibile della creatura umana, e dobbiamo aggiungere, fatta ad immagine di Dio, l’economia si solleva, la persona potrà operare in vista dell’incremento dei beni e dei servizi. I beni devono essere subordinati alla persona e la persona deve accogliere quella legge morale che fa dell’uomo una creatura di Dio, e delle persone un fine e mai un mezzo. L’economia è un mezzo e non il fine. Un mezzo per la vita dell’uomo. Dunque, è semplicemente assurdo pretendere di salvare l’euro o l’Italia. Un sano realismo vuole che invece salviamo gli italiani, le famiglie più povere, che da queste manovre sono le più colpite.

Noi invece andiam fieri di aver edificato un’Europa sull’euro, che però sta crollando facendo crollare anche l’Europa. La soluzione al debito sovrano ci sarebbe e dovrebbe essere concepita proprio nell’ottica di una vera Europa unita, in cui tutte le nazioni-membri partecipano ai rischi e ai vantaggi degli alleati, con una banca europea che funga da prestatore di ultima istanza. Si richiede collaborazione, fraternità, detta in modo cristiano e non giacobino. Eppure, questa soluzione è lontana dal panorama europeo. Si preferisce vivere in Europa ma in modo individualistico, conservando ognuno il proprio portafogli. Si vive, appunto, in un’Europa dominata dall’egoismo. L’egoismo però non è un problema economico ma precedente, riguarda la vita dei cittadini, di ogni singola persona, ed è sintomo di una radicalizzazione del peccato originale, i cui effetti non sono smorzati dai rimedi della grazia di Dio: Dio e la sua grazia sono stati allontanati. Anche il consumismo dei nostri italiani è sintomo di una deficienza culturale: si investe su beni secondari e caduchi, si spreca, mentre i beni di prima necessità languono. Il problema vero è che la vita stessa è considerata dagli italiani e dagli europei un bene di consumo, disponibile secondo le proprie esigenze. Sono purtroppo tanti gli italiani e gli europei che mancano all’appello della vita, il cui sangue innocente è un grido sordo ma persistente, che incombe su di noi, e ci immiserisce ancor di più. Se non c’è la vita non c’è nient’altro. Neppure i soldi. Col rischio però che se il problema sono solo i soldi, quando questi crollano, crolla davvero tutto. Proprio come sta accadendo.

In questo momento così ingarbugliato della nostra storia però spetta a noi, ai cristiani, di dire la verità sull’economia, sul debito sovrano, sull’Europa, sull’Italia. L’Europa è in crisi perché ha smarrito se stessa, la sua identità evangelica, che l’ha plasmata intimamente, radicando ogni valore e ogni bene dell’uomo non su una piattaforma economica o politica di turno, ma sulla persona umana inviolabile, sempre il fine di ogni scelta e finalmente su Dio, la Ragione di tutto, il senso della vita e la meta dell’uomo.

La crisi che è sotto i nostri occhi, in ultima analisi, è soprattutto una crisi di fede, un’assenza di Dio che è l’unica vera certezza. Se manca Dio, se gli europei, e gli italiani in particolare, diventano atei o indifferenti al problema religioso, non solo diventano più poveri perché destabilizzano il meccanismo umano, fino ad arrivare ad auto-comminarsi la morte con il gravissimo delitto dell’aborto e dell’eutanasia, fino ad autodistruggere autodistruggendosi, ma aprono pure la società umana al rischio di smarrirsi a sorsi col cadere in un sincretismo valoriale, in cui vigerà solo la legge del più forte. Non ci sarà più l’altruismo e la comunione, che invece dovrebbe animare la Comunità europea, se vuole essere una comunità. Ancora, come però potrebbe esserci comunione tra gli Stati nazionali se rinneghiamo la nostra fede e la verità di Dio somma comunione, uno e trino? Come potremmo essere nuovamente veri uomini senza Colui che ci ha insegnato chi è l’uomo perché ha assunto un volto umano, diventando uomo Lui stesso? Il cristianesimo che ha fatto l’Europa ora è chiamato a rifondarla. Questo è il momento della Chiesa, della sua predicazione al mondo di oggi. Bisogna prendere il largo nel mare di questo mondo che affoga. C’è bisogno di Cristo, del Dio fattosi uomo per imparare chi è l’uomo, cos’è la famiglia, perché l’economia è sempre al servizio dell’uomo e della famiglia e mai viceversa. Bisogna insegnare di nuovo all’uomo ad essere uomo. Solo però colui che è Dio fattosi uomo ha una parola vera e definitiva. Non stiamo a guardare: è in gioco il futuro del mondo e il futuro della Chiesa nel mondo.


p. Serafino M. Lanzetta, FI

sabato 24 dicembre 2011

Auguri di un Santo Natale

Ave Maria!


“Ecco il Re Pacifico, magnificato nella sua carità che lo fa piccolo bambino, Re pacifico di tutta la terra, perché Salvatore di tutti.

E’ nato, è fiore dell’Immacolata Regina, che lo ha purissimamente dato alla luce, è il Re che inaugura il regno di Dio tra le anime, che le invita a levare il capo dalla loro abiezione, perché Egli le redimerà. E’ apparsa la bontà e l’amore del nostro Dio salvatore, non per la nostra giustizia, ma per la sua misericordia.”

Don Dolindo Ruotolo


A tutti i nostri lettori i più cari auguri di un

SANTO NATALE!

e di un 2012 ricco di Dio e di benedizioni celesti

martedì 20 dicembre 2011

La Tradizione fonte di vita per la Chiesa

Il giorno 9 dicembre 2011, p. Serafino M. Lanzetta ha tenuto una conferenza sulla "Tradizione fonte di vita per la Chiesa", per l'Associazione Madonna dell'umiltà di Pistoia, nella Chiesa di S. Ignazio di Loyola. Riportiamo di seguito i punti centrali della conferenza e la registrazione audio dell'intervento.

1) La Chiesa vive della Tradizione e nella e con la Tradizione esprime se stessa. La Tradizione è l’atto del tradere del trasmettere, del consegnare. È una realtà dinamica. La Chiesa è innestata in questo mistero: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21). C’è una continuità della missio: dal Padre a Cristo, da Cristo ai 12 Apostoli e un’identità sacramentale del Cristo e dei suoi: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (Lc 10,16).

Cristo consegna agli uomini il suo Vangelo (orale) di salvezza, fino a consegnare se stesso sull’Altare della Croce. Tutto ciò che Cristo disse e fece, il suo Vangelo consegnato dalla sua bocca, la Chiesa lo riceve e lo trasmette. La Chiesa è depositaria del Vangelo, lo custodisce e lo ritrasmette fino ai confini del mondo e fino alla fine dei tempi. Anche quando il Vangelo, nella seconda metà degli anni 50 viene messo per iscritto, l’annuncio la trasmissione orale, il tramandare di bocca in bocca, di cuore in cuore, rimane sempre il metodo indispensabile dell’annuncio. Infatti, «la fede dipende dalla predicazione e la predicazione si attua per la parola di Cristo» (Rom 10,17).

2) Dirà S. Paolo ai Corinzi, mettendo in luce una chiara accezione eucaristica della Tradizione: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”» (1Cor 11,23-24).

3) Tradizione sia nella sua accezione greca del paradìdomi, sia in quella latina del tradere, indica ad un tempo l’atto del trasmettere e la cosa trasmessa: l’actus tradendi e l’obiectum traditum (materiale e formale).

4) Purtroppo il concetto di Traditio è divenuto oggi fortemente equivoco. La ragione fondamentale consiste nell’aver scambiato tale concetto teologico con un concetto politico. Quando nasce la diatriba attorno al tradizionalismo e ai tradizionalisti, fautori di un passivo ritorno al passato? In Concilio e soprattutto nel post-concilio. La destra e la sinistra hegeliane oggi, mentre a livello politico sembrano non dipingere più due schieramenti diametralmente opposti, si ritrovano con nuovi panni nella Chiesa, tra i progressisti da un lato e i tradizionalisti dall’altro.

5) La Tradizione non è una nostalgia del passato, né un mero andare indietro nel tempo, ma un rimanere stabili nella verità di Cristo. Se la Chiesa smarrisce la sua Tradizione smarrisce se stessa. Oggi la Chiesa ha smarrito se stessa, ha in un certo modo perso la sua indentità – noi abbiamo perso la nostra identità cattolica – perché abbiamo smarrito la Tradizione.

6) Non c’è però una Tradizione accanto alla Chiesa, oltre la Chiesa o fuori della Chiesa. La Tradizione è l’essere della Chiesa, la sua vita, la sua possibilità di essere sempre se stessa.

7) La Tradizione si è offuscata poiché purtroppo il metro della verità è divenuto il tempo. Siamo caduti nell’eresia della cronolatria. Adoriamo il tempo. Per noi è vero ciò che è attuale e non ciò che è conforme alla realtà. In realtà, il metro della verità non deve essere il tempo ma la santità: questa sola è quella giusta armonia tra il passato, il presente e il futuro. Principiando dal passato, si vive il presente, guardando al futuro.

8) I due nemici della Tradizione: l’archeologismo e il mondo (nella sua accezione di “tentacolo”).

9) Bisogna recuperare il canone della fede cattolica, ovvero la sua misura, la sua identità, la sua Tradizione, che in verità promana dall’eterna deità della Santa Trinità, ci raggiunge nel tempo, ci afferra per riportarci in alto, nella dimensione senza più dimensioni, in Dio.


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domenica 18 dicembre 2011

Benedetto XVI e l’ateismo contemporaneo


L’annuncio del Dio vicino

Oggi è indispensabile valorizzare chi anche fuori della Chiesa si mette in cerca della verità

(Fonte: L'Osservatore Romano, del 18.12.2011, p. 9) Dio, la questione più essenziale, oggi conosce un’incrinatura spaventosa. Il panorama socio-culturale che ci circonda non è dei più incoraggianti. Non c’è più un ateismo forte, che pur nella negazione, chiedeva un confronto con il mistero. Regna invece un grande indifferentismo. Dio, che poteva essere il non-ente, diventa invece il Dio-nulla: per molti, a Dio nulla corrisponde.

Si tratta di una conseguenza diretta del nichilismo, a cui si affianca in modo speculare il fondamentalismo, tragici esiti — come ebbe a dire il Papa nel messaggio per la Giornata mondiale della pace il 1° gennaio 2006 — dello «stravolgimento della piena verità di Dio», in quanto «il nichilismo ne nega l’esistenza e la provvidente presenza nella storia; il fondamentalismo ne sfigura il volto amorevole e misericordioso, sostituendo a Lui idoli fatti a propria immagine».

Già Giovanni Paolo II aveva detto nell’esortazione post-sinodale Christifideles laici che «l’indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversivi rispetto all’ateismo dichiarato» (n. 34).

La questione di Dio sembra essere diluita in un pragmatismo della non-curanza, in un lasciarsi vivere dal non-senso. Eppure, proprio in questo orizzonte che potrebbe apparire cupo, deve nuovamente prendere il largo la speranza cristiana: l’annuncio del Dio vicino, di Colui che si è fatto vedere. Quando non c’è Dio in questo mondo subentra la disperazione; quando finalmente lo si conosce nasce la speranza (cfr. Efesini, 2, 12 cit. nella Spe salvi, n. 2). Su questa scommessa davvero grande, sull’annuncio di Dio in questo mondo, Benedetto XVI ha radicato il suo ministero petrino.

Infatti, nonostante tutto, Dio rimane la questione essenziale, la «questione delle questioni», che «ci riporta alle domande di fondo dell’uomo, alle aspirazioni di verità, di felicità e di libertà insite nel suo cuore, che cercano una realizzazione», come il Papa ricordava alla recente plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici (25 novembre 2011).

Benedetto XVI non indica alla Chiesa un programma d’azione. La Chiesa, ci ha detto, non ha un suo programma. Non è questo di cui c’è bisogno, ma unicamente di Dio: la sua ricerca, il desiderio di ciò che è veramente grande e per cui vale la pena vivere, la vita vera, la verità e l’amore. Solo dopo si può concepire una retta pastorale; solo partendo dalla verità e dalla sua contemplazione si può escogitare anche la via giusta per arrivare all’uomo.

È necessario anzitutto risvegliare la domanda di Dio nei cuori, che per Benedetto XVI significa affrontare unitamente anche l’altra questione, quella del vero Dio. La cogenza di Dio, l’imprescindibilità dal mistero, deve oggi condurci a far luce sul suo volto: chi è Dio? Per rispondere così anche alla domanda, eco di un sincretismo sempre crescente, ma ultimo risvolto dell’indifferentismo relativistico: quale Dio? Quale Dio se non il Dio vero, quel Dio che ha un cuore e che ha assunto un volto umano? Dio in Cristo, icona del Dio invisibile (cfr. Colossesi, 1, 15), è l’Unico riconoscibile, il quale mentre rivela se stesso nel Figlio fattosi carne, si nasconde agli sguardi profani di una vana curiosità: quel Gesù di Nazaret chiederà ai suoi interlocutori di partire dal lògos per credere in Lui, di avere fede in Dio e anche in Lui (cfr. Giovanni, 14, 1). Egli è il Figlio che dà la vita (cfr. Giovanni, 5, 21), il Mediatore che realizza l’unità tra ragione e amore, senso e vita. È il Lògos amore, svelato pienamente sulla Croce, che compie anche l’unità, in una purificazione trascendente, tra èros umano e agàpe divina. Ritornare a Dio, al Dio vero che si rivela nell’agàpe (una grande intuizione della Deus caritas est): questo è il compito della Chiesa, che non annuncia se stessa ma solo l’Altro. La Chiesa vive per un Altro e non per se stessa. Cristo, dunque, è Colui che è disceso da Dio e vi è di nuovo risalito per mezzo della sua Croce. La sua via però va oltre la Croce. Gesù — diceva Benedetto XVI nell’Omelia per la domenica delle Palme del 2010 — «sa che la sua via strapperà il velo tra questo mondo e il mondo di Dio; che Egli salirà fino al trono di Dio e riconcilierà Dio e l’uomo nel suo corpo (...) perché nella sua passione Egli ha aperto il confine tra cielo e terra». In una «cordata» di comunione nel «noi» della Chiesa, nella quale è presente il «Tu» del Signore Crocifisso e Risorto, la nostra vita si riapre a Dio, il Dio vivente: «Nel “noi” della Chiesa entriamo in comunione col “Tu” di Gesù Cristo e raggiungiamo così la via verso Dio».

Ora, come fare perché gli uomini del nostro tempo possano ritornare al pensiero del vero Dio, a Colui che offre la verità su Dio e quindi sull’uomo, sulle cose della vita? Il Pontefice ci dice che è necessario dapprima purificare il nostro concetto di Dio, e così ri-aprirsi alla verità del reale, alle cose vere. Bisogna cominciare da Dio. È con Lui o senza di Lui che cambia tutto. In questo ripartire da Dio-il Dio vero, Benedetto XVI ha escogitato un notevole piano: gli atei, quelli cioè che pur accostandosi a Dio come a uno sconosciuto, sono aperti alla verità, alla bontà, alla vera grandezza. Ecco perché ha voluto una sorta di “Cortile dei gentili”, un nuovo dialogo attraverso il quale «gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa». Oggi è indispensabile valorizzare questa ricerca di Dio anche fuori della Chiesa. La ricerca della verità-una è sempre una ricerca di Dio.

Già sant’Agostino per provare che il Battesimo è sempre uno anche quando amministrato fuori della Chiesa, poneva l’argomento dell’unicità di Dio e della fede: «Noi constatiamo infatti che il medesimo Dio è adorato al di fuori della Chiesa da coloro che l’ignorano, ma non per questo egli non è Dio; anche la fede, per cui si crede che il Cristo è Figlio del Dio vivo, noi riscontriamo che la professano anche coloro che non fanno parte delle membra della Chiesa, ma non per questo la fede non è unica» (Contro Cresconio, 1, 28). L’unico Dio è adorato anche da coloro che l’ignorano, o potremmo anche dire: Dio rimane l’anelito del cuore di tanti che vorrebbero adorarlo ma non vi riescono. Vorrebbero conoscere il suo volto e magari vivono un’oscurità di fede. Costoro hanno un ruolo importante, che Benedetto XVI ha indicato nello scorso raduno di Assisi come mediatore e purificatore nello scenario odierno, religiosamente policromo da un lato, e fortemente individualistico dall’altro. Questi (nuovi) atei hanno la forza di togliere a chi è mosso da un’ideologia le sue false certezze, mentre dicono ai credenti di non considerare Dio come una proprietà privata. Questi atei possono aiutarci ad avvicinarci al vero Dio, a Colui che in fondo cercano nel loro sforzo sincero di apertura al trascendente. Ma Cresconio, grammatico donatista, avrebbe ancora obiettato ad Agostino «è impossibile che anche al di fuori della Chiesa si adori il medesimo, lo stesso, l’unico Dio o che si incontri anche presso coloro che sono al di fuori della Chiesa la stessa fede, che ci fa riconoscere nel Cristo il Figlio di Dio e per cui Pietro è stato chiamato beato». Sant’Agostino gli risponde: «Questo è ciò che mi resta da provare. Tu lo leggi nello stesso discorso del beato Paolo, che ho citato sopra dagli Atti degli Apostoli. Mentre parlava di Dio, poiché aveva trovato un altare con l’iscrizione Al Dio ignoto, disse loro: “Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio”. Gli ha forse detto: “Poiché lo adorate al di fuori della Chiesa, non è Dio colui che adorate”?».

La Chiesa oggi, in un modo quanto mai attuale, è al servizio di questo annuncio di salvezza.


Serafino M. Lanzetta, Istituto teologico Immacolata Mediatrice (Cassino)

mercoledì 14 dicembre 2011

Un Anno della Fede a 50 anni dal Concilio. Tra ermeneutiche in conflitto


Pubblichiamo un estratto dell’Editoriale di «Fides Catholica» 2 (2011), in uscita. Il testo integrale apparirà nella rivista, corredato dell’apparato scientifico.

L'Anno della Fede che inizierà ad ottobre 2012 è collegato in modo ideale dal S. Padre anche all'inizio del Concilio Vaticano II, che è necessario interpretarlo con una giusta ermeneutica, come ribadisce lo stesso Pontefice. Il discorso attuale dei teologi sul Vaticano II è piuttosto variegato e a volte anche contrastante. Recentemente si è registrato un intervento di don Pietro Cantoni, volto, più che altro, a squalificare il tentativo teologico di Gherardini, di fare un discorso sul Concilio. L'analisi di Cantoni è ben fondata teologicamente? Non è forse il momento di affrontare i problemi reali del Concilio, quali il giusto rapporto tra pastorale e dottrina, la continuità e la discontinuità a livelli diversi, più che continuare solo a declamare la continuità?


Il S. Padre ha indetto, con l’anniversario della solenne apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 2012, un Anno della fede, collegandolo idealmente all’ultima assise conciliare. Il discorso ormai famoso di Benedetto XVI alla Curia Romana, del 22 dicembre 2005, segnò, in verità, una vera svolta nell’analisi del Concilio. Avviò una nuova disputa intorno al Concilio; un confronto non più a senso unico col monopolio di una certa ermeneutica, ma un dialogo a più voci, molte delle quali nuove e scevre di risentimenti o rancori di sorta. L’ermeneutica giusta, al dire di Benedetto XVI in quel discorso, è la «riforma», o «l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Una tale riforma comporta continuità e discontinuità secondo livelli diversi: «È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma», scrive il Pontefice. Continuità nei principi dottrinali e discontinuità delle forme storico-contingenti, che facevano da supporto a tali principi.

Guardando però più da vicino il Vaticano II e in modo globale, si nota una riforma non solo delle forme storiche e sociali, come poteva essere ad esempio la nuova concezione dello Stato moderno, tale da indurre la Chiesa a ripensare la dottrina della libertà religiosa, rinunciando ad una religione di Stato, ma anche una certa riforma della stessa dottrina: la stessa libertà religiosa, ad esempio, da aspetto soggettivo come incoercibilità della coscienza nella sua apertura alla verità, diventa invocazione oggettiva della medesima plausibilità di tutte le religioni all’interno di uno Stato, in ragione del diritto alla libertà religiosa, che deve diventare libertà di culto (cf. DH 1 in relazione a DH 3 e 4): il livello soggettivo della libertà di coscienza diventa anche e soprattutto oggettiva egualità sociale di tutte le religioni. Libertà religiosa e libertà di culto sono, in verità, due elementi distinti. Se non le si distingue, argomentandone la reciproca fondatezza nella verità, accade facilmente che la prima venga negata e assorbita dalla seconda. La natura è negata a favore del diritto. Si pensi all’Islam. E la risposta cattolica non può essere semplicemente l’assicurazione di entrambe, ma solo la subordinazione della libertà di culto alla libertà religiosa, radicando quest’ultima nella coscienza morale in quanto aperta alla verità.

Una riforma, perciò, ha interessato anche le dottrine e questo principiando non dalle dottrine ma dal modo di insegnarle, dalle forme storiche contingenti, in primis, dalla forma espositiva e linguistica, ovvero da una nuova metodologia, più pastorale ed ecumenica. Di fatto la dottrina – alcune dottrine – è così “nuova”. L’accavallamento di soggettivo e oggettivo nella libertà religiosa è un paradigma. Ma gli esempi riguardano anche altri ambiti come l’ispirazione dei libri sacri, il rapporto Scrittura e Tradizione, la Collegialità episcopale, il concetto di ecumenismo, che fa leva quasi esclusivamente sul sacramento del Battesimo. Si è indubitabilmente di fronte ad un insegnamento nuovo, che poi possa essere o meno in pieno collegamento con l’insegnamento precedente è un altro problema, un secondo dato da analizzare. Nel Vaticano II ciò che è da appurare anzitutto è che la continuità e la discontinuità, secondo livelli diversi, si collocano sul piano del soggetto docente e della dottrina insegnata, altrimenti si rischia solo di declamare la continuità delle dottrine ma senza mai verificarla. Si rischia di voler conservare col Vaticano II uno status quo nella Chiesa. Se così non fosse, se la difficoltà ermeneutica cioè non ascendesse fino al rango degli asserti magisteriali, del loro essere semplice sviluppo o piuttosto una nuova forma, una ri-forma della dottrina cattolica, sarebbe già risolta tutta la difficoltà ermeneutica, che invece è il vero rompicapo per valutare correttamente il Vaticano II. Se la difficoltà ermeneutica non riguarda la dottrina di prima e quella di dopo, cade la stessa necessità di un’ermeneutica giusta per appurarne la continuità: questa sarebbe semplicemente evidente.

A nostro giudizio, c’è una nuova forma della dottrina cattolica, che nasce da un binomio tipico del Concilio, non sempre così chiaro – di qui la difficoltà – di dottrinarietà e pastoralità: queste due facce a volte si sovrappongono, a volte si interscambiano. Un solo esempio lampante: in nome del dialogo ecumenico si volle una dottrina sulla Divina Rivelazione che lasciasse insoluto il problema dell’insufficienza materiale delle Scritture; al dire di Florit né lo si affermava né lo si negava, anche se il magistero ordinario nei catechismi aveva appurato definitivamente che non tutte le verità, oltre al canone sacro, sono contenute nella Scrittura.


Il problema ermeneutico del Vaticano II implica 3 aspetti distinti:

1) nel concilio ci sono delle dottrine nuove;

2) queste sono uno sviluppo e/o ri-forma delle dottrine classiche;

3) il grado dell’asserto magisteriale delle dottrine conciliari.


A questo punto come coordinare continuità e discontinuità? La domanda, in modo frettoloso, viene anche formulata così: il Vaticano II è o non è in continuità con il magistero precedente? La domanda però va oltre la mera e scontata asserzione dell’autenticità del 21° concilio della Chiesa rispetto ai 20 precedenti. Se ciò non fosse presupposto sarebbe inutile anche la domanda. La si deve perciò collocare in un substrato teologico molto più sottile, lì dove si nasconde il vero problema: in che modo il magistero del Vaticano II si colloca in continuità con quello precedente? Dove si coglie la continuità? Fino ad oggi, a cinquant’anni dal Vaticano II, una delle soluzioni che trova più favore, perché forse mai preso di vista in modo scientifico il vero problema, se non grazie al grido d’allarme di Gherardini, è quella secondo cui la continuità è garantita dal magistero stesso: per il fatto che siamo dinanzi ad un’asserzione del Vaticano II, dunque del magistero solenne, abbiamo la continuità. Fondamentalmente questa è la posizione di P. Giovanni Cavalcoli e, di recente, di don Pietro Cantoni. Il magistero diventa così ragione di se stesso.

Ma in questo modo non si dà ragione delle effettive “riforme” del Vaticano II, che si leggono per la libertà religiosa, confrontando la visione ecclesiologica di Pio XII e quella del Vaticano II, per la collegialità del Vaticano II quale “perfezionamento” del primato petrino nel Vaticano I. Come intendere questo perfezionamento? Basta esporre una nuova dottrina o invece è necessario radicarla nella Tradizione della Chiesa?

Il problema “cuore”, dunque, è coordinare continuità e discontinuità secondo livelli differenti, in modo da leggere una nuova dottrina insegnata dal medesimo soggetto. È proprio qui il nodo: la continuità è assicurata dall’unico soggetto che insegna, il magistero, che però non si identifica con la Chiesa e con l’infallibilità totale di essa, rimanendo questa più ampia e includendo ad esempio il sensus fidei del Popolo credente, dunque un’infallibilità in credendo che precede e fonda quella in docendo. È necessario radicare in modo assoluto, oggi più che mai, l’infallibilità del magistero, nelle Verità credute infallibilmente per mezzo della fede, per evitare di scadere in una visione meramente “burocratica”, in cui il soggetto docente diventerebbe l’ultima ragione del porsi della verità stessa. Ci sarà sempre un Küng che potrà inveire contro il monopolio del “potere romano”, dimenticando che la gerarchia è un’origine sacra, scende dall’alto quale munus, ministero, servizio alla Verità.

La discontinuità invece riguarda fondamentalmente due cose:

1) la nuova forma che assume il magistero nell’ultimo Concilio: un magistero fontalmente pastorale. Infallibile quando? Sempre, o non piuttosto solo quando reitera il dato di fede definitivo? Un magistero solenne/straordinario quanto alla forma ma ordinario autentico quanto all’effettivo esercizio;

2) i nuovi contenuti, le nuove dottrine. Negare infatti che ci siano delle dottrine nuove e che siano una ri-forma rispetto a quelle di prima, significa non vedere il Vaticano II. Il magistero può insegnare delle dottrine nuove, ma non per il fatto che le insegna sono (automaticamente) infallibili. Non infallibili poi non significa per sé erronee, ma solo non definitive. La non-infallibilità è un giudizio di valore sul grado magisteriale di cui è rivestita (dal magistero) la dottrina insegnata. L’errore è un giudizio logico che si dà ad una proposizione quanto alla sua conformità o meno al vero. Confondere errore (molto spesso tradotto con fallibilità) con non-infallibilità è un’operazione contraria alla logica e alla teologia.

Il problema c’è, ed è soprattutto di ermeneutica del magistero conciliare in quanto tale, e quindi delle dottrine. Così si presenta, a nostro giudizio, nell’insieme del quadro ermeneutico, un altro aspetto da non trascurare: quale ermeneutica teologica è necessaria per il magistero del Vaticano II? Purtroppo, non abbiamo una categoria per un’ermeneutica dell’aggiornamento magisteriale. Il Concilio volle essere un aggiornamento, ma come capire l’aggiornamento? Basta rispondere: con il magistero?

Alle tesi di Gherardini ha risposto in modo infuocato e con un fare quasi comminatorio di scomunica Don Pietro Cantoni. L’analisi di Cantoni, a nostro giudizio, sorvola il vero problema, e ci lascia amareggiati per il modo in cui tutto il libro viene organizzato: una stroncatura di una persona, mentre avrebbe potuto offrire, mostrando anche le reticenze, un valido contributo alla ricerca ermeneutica sul Vaticano II. Si condanna con la persona non solo una soluzione ma lo stesso problema. Di seguito ci concentreremo sui passaggi salienti di Cantoni in obiezione a Gherardini, onde scorgere i punti più delicati di questo proficuo dibattito.

Tutto l’impianto di Cantoni è fondamentalmente basato su questo concetto: Gherardini scredita il magistero conciliare; invece di mostrarne la continuità con quello precedente, assume un atteggiamento lefebvriano mostrandone la rottura, atteggiamento in antitesi con la Scuola Romana, del resto, sua eredità teologica. Gherardini sarebbe caduto in un sorta di “manualismo”, e il vero argomento per scongiurare ciò è l’accettazione del magistero, visto come soggetto docente più che come dottrina insegnata. Scrive Cantoni:

«Se il concilio ecumenico Vaticano II appare a qualcuno problematico, erroneo, perlomeno confuso, è proprio perché è letto in un’ottica sbagliata. Si tratta di quella “teologia manualistica” che – a contatto con il concilio – non ha retto, ma è andata in frantumi. Non è il concilio che è poco chiaro, è la teologia con cui è interpretato che è tale».

Ma sarà proprio con i grandi manuali dei teologi romani che Cantoni cerca di far vedere le contraddizioni di Gherardini nella sua critica al magistero del Concilio. E sono gli stessi teologi romani, con i loro manuali, ai quali si appella Gherardini quando spiega il concetto di Tradizione: quel quod ubique quod semper quod ab omnibus creditum est, che, quale regola aurea, è principio di ogni sviluppo omogeneo della dottrina cattolica, quanto alla sua accresciuta comprensione, dove Scrittura e Tradizione sono la norma remota della fede, mentre il Magistero è la norma prossima.

Il problema dei manuali che non reggono al confronto col Vaticano II viene corretto da Cantoni col fare appello all’autorità magisteriale, che a suo modo di vedere,

«è di carattere carismatico, non “epistemico”, è la sua stessa proposizione che garantisce della sua continuità con la Tradizione, perché è essa stessa componente e componente costitutiva e formale di questa stessa Tradizione, e costituisce quindi per il teologo un fatto a partire dal quale condurre la sua indagine».

Questa affermazione è del tutto nuova. Significa scindere nell’organo magisteriale il soggetto docente dall’oggetto dell’insegnamento, sia materiale che formale. Se la si esaspera si potrà arrivare a trarre dal magistero ogni possibile conclusione. Il magistero stesso non sarà più vincolato da res fidei et morum e potrebbe diventare fautore anche di una nuova Rivelazione. Il che è impossibile. Nel magistero ecclesiastico bisogna considerare unitamente e distintamente: il soggetto attivo che insegna (il Papa e il Collegio dei vescovi), l’oggetto materiale (la verità rivelata) e l’oggetto formale (l’autorità del magistero, che ammette diversi gradi). Dei Verbum al n. 9 precisa i confini del magistero, che non sono dati da se stesso, ma dalla Scrittura e dalla Tradizione:

«Il … magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio».

Questa visione “carismatica” del magistero favorisce in Cantoni anche il tentativo di dedurre dal Vaticano II, come teologi privati o come fedeli, delle conclusioni irrinunciabili (infallibili), o almeno una dottrina «davanti alla quale non si può assolutamente escludere a priori che qualcosa sia infallibile». Cosa sia infallibile Cantoni non lo dice. Dice però, col sostegno del p. U. Betti, che,

«mentre a Trento e al Vaticano I i capitoli trovavano per lo più (ma non sempre…) nei canoni la conclusione perentoria del loro discorso, qui questa formulazione – che sarebbe infallibile in se stessa nella sua propria formulazione – manca per dichiarata scelta dell’autorità. Nulla però impedisce che una tale conclusione venga tirata dal teologo e dal fedele».

Tralasciamo l’allusione ai fedeli, sovraccaricati di un lavoro veramente immane. Spetta al teologo trarre le conclusione dogmatiche dai documenti del Vaticano II? E così appurarne l’infallibilità, almeno in qualche sua parte? Qui Cantoni scambia ciò che spetta propriamente al magistero, e cioè dichiarare una dottrina come definitiva, con l’opera della teologia, per quanto riguarda invece le “note teologiche”. Cosa può fare il teologo, o meglio, cosa possono fare i teologi? Non fa testo il singolo, ma è necessaria l’unanimità, analogicamente ai Padri.

È bene rivisitare a questo proposito il Commentarius al cap. VII “De Ecclesiae Magisterio”, dello schema preparatorio De Ecclesia, che a sua volta tiene conto del Votum Universitatis Lateranensis de necessitudine inter Magisterium Ecclesiae et sacram theologiam. Qui si distingueva due classi, ovvero due categorie dottrinali teologiche: la «doctrina certa» e le «sententiae theologicae», dove è richiesta, per entrambe, la partecipazione dei teologi e l’antichità e la reiterazione della dottrina: un «communi costanti consensu» e le «venerandae theologicae traditioni». Tutto questo si riscontra tra i teologi per quanto riguarda le dottrine (nuove) del Vaticano II? A tutt’oggi non sembra.

Cantoni giustifica il lavoro del teologo in ragione dell’infallibilità del magistero ordinario e universale, secondo quanto dice il Vaticano I.

Circa il magistero ordinario universale, sembra che Cantoni alluda ad un’universalità solamente de facto, la quale basterebbe a rendere infallibile l’asserto magisteriale del Vaticano II o almeno intoccabile e da accettare indiscutibilmente. Gherardini violenterebbe questa infallibilità/indiscutibilità di dottrine, a cui Cantoni con Scheeben dà la qualifica di “doctrina catholica”. Qui rileviamo due elementi. La qualifica di “doctrina catholica”, genericamente intesa, ci sembra alquanto sovrabbondante per il Vaticano II. La si attribuisce al Concilio come unicum magisteriale o alle singole dottrine? A tutti i documenti o solo alle Costituzioni dogmatiche? Cantoni tiene veramente conto dell’intenzione dei Padri nel redigere i documenti, in ragione della quale appurare la qualificazione della dottrina di ogni singolo documento? Se al Concilio come unicum risulta deficitaria perché il Vaticano II insegna in alcuni contesti in modo solenne e definitivo, ad esempio quando il Concilio utilizza l’espressione «docet Sacra Synodus» (LG 20), o «docet autem Sancta Synodus» (LG 21), o in altri insegnamenti introdotti dalla parola «credimus» o anche «creditur» (cf. LG 39; UR 3 e 4). Se invece alle singole nuove dottrine, qui sì che si vede ampiamente la sovrabbondanza: come si può attribuire sic et simpliciter una tale qualifica teologica a delle dottrine, in buona parte, ancora discusse dai teologi (si pensi particolarmente alla collegialità episcopale: il Papa e il Collegio sono due soggetti inadequatae distinctum?), e talvolta richiedenti un ulteriore intervento chiarificatore del Magistero stesso (si pensi alla questione del subsistit in)?; a dottrine cioè insegnate dal magistero ordinario ed universale (impropriamente “ordinario universale” perché qui si tratta di un raduno in un concilio, quindi di un magistero straordinario o solenne), senza che però venga dichiarata la loro definitività? Non è sufficiente, infatti, che ci sia un magistero ordinario ed universale (il collegio dei Vescovi sparso nel mondo che concorda con il suo Capo) perché la dottrina sia doctrina catholica (certa), ovvero definitivamente insegnata dalla Chiesa, muovendo verso il proximae fidei (è in questa direzione che va la qualificazione di Scheeben): è invece indispensabile che sia altresì insegnata tamquam definitive tenendam.

Il testo della Costituzione dogmatica Dei Filius, del Vaticano I, a cui Cantoni si appella, recita così:

«Si devono credere con fede cattolica e divina tutte quelle cose che sono contenute nella Parola di Dio, scritta o trasmessa, e tramite un giudizio solenne, o il suo magistero ordinario universale, vengono proposte alla chiesa come divinamente rivelate e, in quanto tali, da credersi» (cf. DH 3011, a cui faceva già riferimento il b. Pio IX nella Tuas libenter, del 21.12.1863).

Qui è detto che il magistero ordinario universale è infallibile per sé? Certamente non espressamente, ma vien detto che è necessario proporre alla Chiesa le verità come divinamente rivelate. Per rispondere a questa domanda, comunque, è necessario leggere il testo del Vaticano I alla luce di Lumen gentium 25, che recita:

«Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell'infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo».

Quel «si impone in maniera assoluta», che suona teologicamente molto povero nel nostro italiano, in latino invece esprime la giusta qualificazione teologica della dottrina ordinaria universale ed irreformabile: «[…] in unam sententiam tamquam definitive tenendam conveniunt, doctrinam Christi infallibiliter enuntiant».

Una tale spiegazione era già offerta da uno dei manuali più importanti nell’immediata preparazione al Vaticano II, quello del gesuita J. Salaverri, il quale spiegava la definitività del magistero ordinario universale in questo modo:

«I vescovi insegnano una dottrina da ritenersi come definitiva quando, con il sommo grado della loro autorità, obbligano i fedeli a dare ad essa un assenso irrevocabile».

Crediamo che qui il vero problema dell’analisi di Cantoni consista nell’appoggiarsi a Scheeben che, quantunque autore sicurissimo e validissimo, non ha conosciuto il Vaticano II, concilio con una natura e un fine diversi da Trento e dal Vaticano I, e al p. Betti, sostanzialmente isolato nella sua visione massimalista dei documenti (della Costituzione Lumen gentium) del Vaticano II.

La tesi del “magistero carismatico” non risolve il problema di un magistero a più livelli all’interno dello stesso corpo conciliare, di una nuova forma dell’insegnamento conciliare, di nuove dottrine il cui grado di autorità non è una ricetta fissa, ma va scorto in un lavoro di ricerca della mens conciliare nelle intenzioni dei Padri.

Della complessità del problema se ne era accorto anche l’acuto K. Barth, il quale, tra le varie domande poste a Roma, analizzate egregiamente da Gherardini, chiedeva:

«Il Vaticano II è stato un Concilio di riforma (la cosa è discussa!)? Che cosa significa aggiornamento? Aggiornamento in base ed in vista di che? Si è trattato: a) del rinnovamento, teoretico pratico, dell’autocoscienza della Chiesa alla luce della Rivelazione che ne costituisce il fondamento? oppure b) del rinnovamento del suo pensiero della sua predicazione, del suo operare oggi alla luce del mondo moderno?».

È ancora difficile rispondere a queste domande. Un Anno della fede però potrebbe essere l’occasione propizia.

p. Serafino M. Lanzetta, FI