Lectio divina di p. Serafino M. Lanzetta, FI per un gruppo di sacerdoti sulla pericope paolina della seconda Lettera di S. Paolo Apostolo ai Corinzi (5,14-6,2), (su Il Settimanale di P. Pio, n. 9, del 3 marzo 2013).
In questa lectio desidererei far luce sul ministero sacerdotale alla luce dell’inizio della Quaresima, meditando sulla seconda Lettera di S. Paolo ai Corinzi e più precisamente sul capitolo 5°, dal versetto 14 fino all’inizio del capitolo 6°. Si vede un movimento che, in modo armonico, da Cristo che ci riconcilia con Dio offrendo se stesso arriva a scolpire l’essenza del ministero sacerdotale, l’essere cioè collaboratori di Dio in Cristo nel portare in se stessi e nelle proprie mani il ministero della riconciliazione.
Partiamo da una parola chiave e indicativa di tutto il discorso: uno è morto per tutti. Cristo è morto per noi facendosi sacrificio di espiazione per tutti gli uomini. Egli è morto per riconciliare coloro che erano dispersi e raccoglierli in unità, non solo quelli della nazione giudaica ma tutti gli uomini.
Caifa aveva profetizzato la morte di Cristo per la nazione intera, meglio la morte di uno che quella di tutti. E Giovanni annota che la sua profezia aveva un valore universale: Cristo doveva morire non «per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52).
Cristo è morto per tutti e perciò tutti sono morti. Siamo anche noi morti in Cristo, mediante il Battesimo, siamo stati seppelliti in Lui per risorgere alla vita nuova dei figli di Dio. Questo significa ormai non vivere più per se stessi ma per Colui che è morto e risorto per noi. Il cristiano, il sacerdote in particolare, vive solo per Cristo. Cristo è il centro, il cuore, il tutto della sua vita. E solo quando al centro c’è Cristo anche noi possiamo veramente morire a noi stessi e così vivere veramente. Solo se moriamo in Lui, viviamo. Solo se rinneghiamo noi stessi, mettendo da parte egoismi, partitismi, divisioni, possiamo conoscere Cristo.
Infatti, non conosciamo più Cristo secondo la carne e nessuno più secondo la carne. Paolo ci dice che se anche è stato privilegiato come gli altri di conoscere Cristo mediante una visione, fisicamente, ora però, poiché lui è morto e risorto, ed è quindi il Kyrios pneumatikos, il Signore che dona lo Spirito, la vita, non possiamo conoscerlo secondo la carne. La carne è stata redenta, la vita di prima è morta nella morte di Cristo. Dobbiamo essere persone che iniziano a vivere dalla morte e dalla risurrezione di Cristo. Quindi non possiamo più fermarci a una conoscenza solo storica del Signore che, pur essendo preziosa e il fondamento stesso del nostro credere, non basta per avere un quadro completo su Gesù. Bisogna accostarsi a Cristo come persone che non conoscono più secondo la carne, persone nuove.
Cosicché, noi non conosciamo più nessuno secondo la carne. Il cristiano deve sforzarsi di essere come il Signore, un uomo spirituale, che vive secondo lo spirito, anzi vive dello Spirito di Cristo. Con i Padri della Chiesa, diciamo dire che il cristiano è un uomo che lotta, un athletes, il quale si sforza sempre di vincere le sue passioni disordinate, di purificare la sua anima per arrivare all’illuminazione di Dio. Il cristiano deve vincere il suo egoismo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita (cf. 1Gv 2,16). Così potrà vedere Cristo, il Cristo risorto e spirituale. Per i Padri soprattutto orientali, il cristiano vive in funzione di un premio soltanto: la divinizzazione, che avviene nel contatto con l’increato, vedendo con la fede e la carità il Cristo risorto, il Cristo conosciuto non più secondo la carne.
Leggiamo nella vita di S. Antonio l’abate, scritta da S. Atanasio, queste parole:
«Diceva S. Antonio ai suoi discepoli: Per non cadere nella pigrizia ed abbandonare l’ascesi sarà utile meditare la parola dell’Apostolo (1Cor 15,31), ogni giorno perché se anche noi impariamo a vivere con la quotidiana sensazione della morte, difficilmente cadremo nel peccato. Questo vuol dire che ogni mattino, al risveglio, dobbiamo credere che non vivremo fino a sera. E quando andiamo a letto dobbiamo credere che non ci alzeremo vivi: non sappiamo infatti quanto dura la nostra vita, che viene misurata dalla provvidenza divina. Solo così non cadremo mai nel peccato, né avremo mai desideri cattivi. Non proveremo rabbia contro alcuno e neppure, ancora, accumuleremo ricchezze su questa terra».
Tutto ciò ci aiuta ad essere in Cristo una nuova creazione (più letterale e più profondo, rispetto a “nuova creatura”). La creazione per S. Paolo si rinnova in Cristo che restaura le cose, divenendo capo e principio vivificatore delle cose che sono. Senza di Lui le cose non rivivrebbero dopo la loro morte interiore, causata dalla disobbedienza del peccato. Le cose sono come interiormente destabilizzate, disorientate, smarrite. Cristo è Colui che riporta l’ordine, dà l’orientamento. È lui stesso l’Oriente salvifico. Dunque, è necessario diventare persone nuove, creature nuove, rinnovate da Lui nel suo sacrificio, che ci fa cantare all’unisono il canto nuovo con tutta la creazione rinnovata.
Poi S. Paolo passa a porre l’accento sul dono di Dio: «Tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo» e sul prolungamento di questo dono nel tempo della Chiesa mediante il ministero apostolico e sacerdotale. Dio «ha affidato a noi il ministero della riconciliazione».
Dio ha riconciliato a sé il mondo nel Figlio e ha affidato ai suoi ministri, a tutti noi sacerdoti, il ministero di questa riconciliazione. Di qui, quasi un grido dell’Apostolo delle genti: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio».
Per entrare nel mistero di questa riconciliazione con Dio, di cui siamo servi e ambasciatori, dobbiamo capire meglio e più in profondità cos’è la riconciliazione e come Dio ci ha riconciliati a Sé.
Dio stesso ha fatto la pace dell’uomo con Sé, ci ha riportato a Sé mediante il dono supremo dell’olocausto del Figlio. Dio «fece peccato» il Figlio in nostro favore, Lui che non aveva conosciuto il peccato, Lui che era il totalmente Santo, il Santo di Dio (cf. Gv 6,69).
Letteralmente Dio fece peccato il Cristo in nostro favore. Peccato qui può essere preso nel senso di sacrificio o vittima per il peccato. Cristo non è diventato egli stesso peccato, ma ha preso su di Sé le conseguenze del peccato. Non si è mai allontanato dal Padre né il Padre lo ha mai abbandonato: la Persona del Figlio è sempre una con il Padre e lo Spirito Santo. Nelle parole del Salmo 21 pronunciate sulla Croce: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato», il Signore rivolge al Padre la preghiera del giusto perseguitato. Gesù, anche se cita solo l’inizio, conosce l’intero salmo e sa che tutti i confini della terra ritorneranno al Signore per mezzo del suo dolore. Un dolore che non è vano né disperazione, ma riconciliazione.
Il Cristo soffre la sua passione nella natura umana, soffre in quanto uomo e non in quanto Dio e la sua sofferenza è limitata al tempo della sua passione. Qui il Figlio diventa Agnello di Dio che prende su di sé il nostro peccato. Lo espia al posto nostro e solo in questo modo siamo diventati, noi peccatori e colpevoli, giusti davanti a Dio, amici di Dio. Ecco perché siamo morti e risorti nel Figlio.
Il ministero della riconciliazione allora consiste nel diventare partecipi del dono di essere di nuovo con Dio e solo così di poter portare questo dono agli uomini. Il sacerdote è collaboratore di Dio in quest’opera che è una nuova creazione nella misura in cui lui stesso, anzitutto, attinge ampiamente alla riconciliazione con Dio, in cui lui stesso si lascia pienamente riconciliare con Dio. Solo così diventa strumento di riconciliazione nella Chiesa e per la Chiesa.
Oggi particolarmente siamo chiamati ad essere fautori di questa riconciliazione interna nel seno della Chiesa, travagliata da divisione che lungi dall’essere solo partitismi politici o intrighi di potere, sono soprattutto fratture nella dottrina e nella morale. Non si riconosce più e unanimemente la retta fede e la retta prassi.
Nell’omelia del Mercoledì delle Ceneri (13 febbraio 2013), il Santo Padre metteva l’accento proprio su questo aspetto, a causa del quale si vede ora interiormente debilitato e per il bene dell’unità lascia il timone a un suo successore. Diceva il Pontefice:
«Penso in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale. Vivere la Quaresima in una più intensa ed evidente comunione ecclesiale, superando individualismi e rivalità, è un segno umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti».
Questa è la riconciliazione di cui dobbiamo essere oggi fautori.
E questo è il momento favorevole. La Quaresima è il tempo propizio del nostro ritorno a Dio con tutto il cuore, del nostro angustiarci e pentirci nel cuore e non strappandoci le vesti, gridando allo scandalo ma rimanendo gli stessi di ieri. Questo è il vero kairos del nostro incontro con Cristo.
p. Serafino M. Lanzetta, FI
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