Don Florian Kolfhaus, autore di una tesi dottorale alla Gregoriana (vedi sotto) e conferenziere al nostro convegno sul Vaticano II, espone le ragioni di un errore ermeneutico oggi spesso ricorrente: leggere tutti i documenti del Concilio con lo stesso metro teologico, senza distinguere il portato delle costituzioni, da quello dei decreti e delle dichiarazioni. Normalmente, si è equiparato i decreti e le dichiarazioni del Vaticano II alle costituzioni: questo però porta a far iniziare una nuova dottrina dal Concilio, ciò che lo stesso Concilio non voleva, perché, in queste ultime, non esponeva una dottrina, ma dava solo delle indicazioni riguardanti la prassi.
Recentemente ha preso avvio una nuova discussione sull’interpretazione del Concilio Vaticano II; oggetto del dibattito è fino a che punto i testi conciliari si collochino effettivamente nella continuità del Magistero. Lo stesso papa Benedetto, nell’ormai famoso discorso natalizio alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, ha affermato che il Concilio Vaticano II può essere adeguatamente compreso solo nel contesto dell’intera tradizione della Chiesa. Non ci fu alcuna “rivoluzione copernicana”, alcun nuovo inizio, alcuna rottura con tutto ciò che i papi e i concili precedenti avevano insegnato. Oggi si pone, tuttavia, la pressante domanda di come abbiano potuto svilupparsi, nella ricezione del Concilio, certe teologie (e non pochi dei loro autori ne fanno motivo di vanto) che rappresentano proprio un “nuovo inizio”, per superare le strette guide dogmatiche del Magistero. Sembrerà paradossale, ma uno dei motivi di questa rottura con la Tradizione è una modalità del tutto “tradizionale” di lettura del Concilio Vaticano II come concilio dogmatico. Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Il cardinal Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava che «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale». Il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità. Il problema centrale è la tensione creata dal concetto di “concilio pastorale” o di magistero pastorale. Il Vaticano II ha introdotto, non sul piano concettuale, ma su quello della prassi, un nuovo tipo di concilio. Qui non è in discussione il carattere vincolante del Magistero, che, anche quando non si tratta di dogmi, ovvero di definizioni infallibili della dottrina rivelata, si pronuncia in questioni di fede e morale con autorità, cioè esigendo consenso o obbedienza. Si tratta piuttosto della questione se il magistero dogmatico – inteso almeno come esercizio del “munus determinandi” – sia affatto presente in tutti i documenti del Concilio. Il Concilio non ha proclamato nessun nuovo dogma, ma ha forse esercitato un magistero paragonabile a quello del papa nelle sue encicliche? Certamente nelle costituzioni viene esposta della dottrina (come ad esempio nella Lumen Gentium, in cui si afferma esplicitamente per la prima volta la sacramentalità dell’ordinazione episcopale), mentre nei decreti e nelle dichiarazioni si tratta dell’agire pratico, cioè della pastorale come conseguenza della dottrina. Nella teologia manca un concetto per questo magistero pastorale, e proprio questo conduce spesso alle interpretazioni del Concilio sopra menzionate. Non si può fare a meno di rimproverare a certi teologi “moderni” un atteggiamento troppo conservatore, poiché essi non di rado guardano ai decreti e alle dichiarazioni del Vaticano II come a testi dogmatici, che definiscono “nuove” verità. Il Concilio stesso non voleva questo. Per esempio, a proposito della dichiarazione sul dialogo interreligioso, il 18 novembre 1964 il relatore del Segretariato per l’unità affermava nell’aula conciliare: «Per quanto concerne lo scopo della dichiarazione, il Segretariato non vuole emanare alcuna dichiarazione dogmatica sulle religioni non cristiane, bensì presentare norme pratiche e pastorali» (cfr. Acta Synodalia (AS) III/8. 644). La pastorale poggia sulla dottrina, la prassi presuppone la retta dottrina. Il rovesciamento di questo ordine porta troppo facilmente a far sì che con “una nuova realtà pastorale” si sviluppi una “nuova” dottrina. Il Vaticano II, in contrasto con i due concili precedenti, utilizza tre diverse categorie di documenti (costituzioni, decreti, dichiarazioni), per ponderare in tal modo il suo discorso. Questa evidente realtà spesso non viene presa in considerazione. Accanto alla “Dei Verbum” il documento dottrinale centrale del Concilio è la costituzione sulla Chiesa “Lumen Gentium”. Altri documenti, vale a dire decreti e dichiarazioni, come “Unitatis Redintegratio” sull’ecumenismo, “Nostra Aetate” sulle religioni non cristiane e “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa, non sono né documenti dottrinali in cui si definiscono verità infallibili, né testi disciplinari che presentano norme concrete. Queste vengono di regola rinviate ai direttori che dovrebbero essere redatti dopo il Concilio. Un errore ampiamente diffuso nell’interpretazione del Concilio consiste proprio nel leggere decreti e dichiarazioni sullo stesso piano delle costituzioni del Vaticano II – quindi come documenti dottrinali. Che questo non possa essere vero lo mostra già uno sguardo attento alle categorie dei documenti. Così può sembrare provocatoria la constatazione oggettiva che “Unitatis Redintegratio” detiene la stessa qualifica formale del decreto sui mezzi di comunicazione sociale “Inter mirifica”. A entrambi i testi si dovrebbe perciò attribuire la medesima qualifica formale. Ma nessuno presume che “Inter mirifica” sia un testo dogmatico! Entrambi i temi sono svolti all’interno della stessa categoria di documenti; non perché siano ugualmente significativi, ma perché ad essi è comune l’orientamento alla prassi. Nei due documenti non si tratta di una dottrina nuova, bensì di una prassi nuova, o meglio, rinnovata. I Padri non volevano pronunciare alcuna definizione di dialogo ecumenico, perché erano coscienti che questa prassi pastorale può e, se vuole essere efficace, deve assumere forme molto diverse. Essi hanno chiaramente messo da parte le questioni dottrinali, a cui “Unitatis Redintegratio” per l’appunto non doveva rispondere: il decreto tace esplicitamente sulla controversia riguardo all’appartenenza alla Chiesa, sul problema della bona fides, sulla chiara valutazione di quali comunità al di fuori della Chiesa cattolica siano Chiesa in senso teologico, sul tema della definizione del rapporto tra Scrittura e Magistero, sulla descrizione dettagliata del primato papale come su una rappresentazione differenziata delle diversità dogmatiche tra cattolici e ortodossi (AS III/7. 675ss.). Il Concilio non ha proclamato alcun “nuovo” dogma e non ha revocato alcuna “vecchia” dottrina, ma piuttosto ha fondato e promosso una nuova prassi nella Chiesa. Non si tratta di mettere in gioco dottrina e prassi l’una contro l’altra, di intendere “pastorale” come sinonimo di “non vincolante” o di “discrezionale” e di vedere la cura d’anime costantemente in conflitto con il Magistero. Forse i Padri conciliari furono sotto certi aspetti troppo ottimisti quando rinunciarono a definizioni dottrinali e condanne solenni, volendo tuttavia conservare e difendere il dogma. Della loro intenzione di fare ciò, non c’è peraltro da dubitare. In questo senso Paolo VI, nella seduta di approvazione dei due documenti conciliari sulla Chiesa “Lumen gentium” e sull’ecumenismo “Unitatis Redintegratio” ha affermato: «Questo sembra essere il più significativo commento alla promulgazione di questi documenti; quanto Cristo ha voluto, lo vogliamo anche noi. Quel che era, tale rimane. Quel che la Chiesa ha insegnato nel corso dei secoli, proprio questo insegnamo anche noi» (AS III/8. 911).
Cfr. anche: Florian Kolfhaus, Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, “Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate”, Münster 2010. LIT-Verlag. ISBN: 978-3-634-10628-5. Si tratta della prima pubblicazione della nuova collana di tesi dottorali prodotte a Roma che si sono particolarmente distinte: “Theologia Mundi ex Urbe”.
da: Il Settimanale di P. Pio, n. 5, 6 febbraio 2011, pp. 18-19.
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