Ogni riflessione sul mistero della morte, per un credente, non può che muovere dalla contemplazione della morte di Gesù. Solo la morte di lui, che è l’immagine perfetta del Padre, il solo che realizza in pienezza il progetto di Dio sull’umanità, può infatti illuminare anche l’oscurità della nostra morte e quella dei nostri morti. Non possiamo infatti negare che di fronte alla morte ogni uomo è posto di fronte all’enigma più inquietante della sua esistenza, fonte di angoscia e di disperazione.
Ci ancoriamo pertanto alle parole della lettera dell’apostolo Paolo ai Romani, che sono state proclamate nella seconda lettura di questa liturgia, parole che, per trattare della nostra salvezza e della nostra riconciliazione con Dio, muovono appunto dalla morte di Cristo. E colpisce subito l’insistenza con cui l’apostolo ribadisce che la morte di lui non fu un incidente che ne interruppe la missione, non fu un fattore negativo che ne mise in crisi il progetto a cui si era votato. La morte di Gesù infatti non è una morte “nonostante”, nonostante la sua voglia di vita e gli orizzonti di bene e di pace che egli veniva ad aprire agli uomini. La morte di Gesù è invece descritta da Paolo coma una morte “per”, per gli empi, per noi, per la giustificazione e la salvezza dei peccatori.
Tutto questo ci aiuta a scoprire come non sia possibile comprendere la morte come un atto estraneo alla vita, fuori di essa, un evento che la chiude e quindi la annulla, la nega. Al contrario, il senso della morte è svelato dal significato che ha prima assunto la vita e verso il quale essa si è orientata. Completamente votato ai fratelli e alla loro salvezza, Gesù non abbandona con la morte questa intenzione originaria della sua esistenza nel tempo; è piuttosto la morte a svelare quanto profonda sia stata questa sua dedizione, quanto assoluto sia stato e continui ad essere il suo amore per l’umanità, un’umanità peccatrice, amata proprio per la sua debolezza e fragilità: «Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Rm 5,6). Morendo Gesù svela questa natura profonda e assoluta del suo amore e dà senso alla morte come un estremo e ultimo dono. Tutto il contrario di quanto purtroppo spesso siamo costretti a registrare attorno a noi, dove impera l’orrore della morte, ma anche l’illusione di poterla in qualche modo umanamente esorcizzare, magari con uno sberleffo, ovvero con il miraggio di diventarne i padroni e di poterla infliggere agli altri, soprattutto ai più deboli, svelando il limite del nostro gracile amore.
Liberiamoci quindi dalla tentazione di confinare la morte nel non senso; interroghiamoci invece che senso stiamo dando alla nostra morte a partire dalla nostra vita. Assimilando la nostra vita alla vita di Cristo, possiamo essere certi che anche la nostra morte potrà partecipare del suo progetto di vita per l’umanità tutta.
Perché il problema della morte non è solo questione di coglierne un senso, ma anche quello di superarla. Ed è ancora Gesù che non solo ci insegna a integrare vita e morte in un progetto d’amore, ma ci offre una prospettiva di superamento della morte. Egli infatti ha oltrepassato la soglia della morte per entrare nella vita nuova del risorto e questo costituisce, come ricorda Paolo, il fondamento di una «speranza che non delude» (Rm 5,5), perché se la sua morte ci ha riconciliati con Dio tanto più la sua vita porta a salvezza eterna la nostra esistenza di creature: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10).
C’è dunque una ragione per cui il cristiano può superare la paura e l’angoscia della morte: come lui e prima di lui quella soglia è stata superata per noi da Cristo. Attraversandola con la potenza del suo amore, il dono di se stesso fino alla fine per noi empi e peccatori, il Figlio di Dio fatto uomo ha tolto alla morte ogni potere, e ne ha fatto il passaggio verso la vera vita, verso il cammino in cui egli ci ha preceduti, «primogenito di molti fratelli» (Rm 8,29), «primogenito di quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18). L’ira della morte non ha più potere su di noi, perché siamo stati riconciliati con il Padre mediante il sangue di Gesù.
Il passaggio della morte, per chi crede nel Cristo Risorto e conforma a lui la sua vita, non è un precipitare nel nulla e nelle tenebre, ma la soglia che ci introduce nella gloria e nella luce di Dio nella compagnia del nostro Salvatore. Nella vita e nella morte non siamo più soli, da quando il Figlio di Dio fatto uomo ci ha raggiunti nel nostro cammino umano, risanando la vita e la morte, aprendo una strada alla vita oltre la morte.
Nella pagina del vangelo di Giovanni tutto questo diventa una rivelazione e una promessa di Gesù fatta ai suoi discepoli. Si tratta di affermazioni che si collocano al centro del grande discorso che Gesù rivolge alle folle, dopo la moltiplicazione dei pani, nella sinagoga di Cafarnao, il discorso in cui egli si rivela e si propone come il pane della vita dell’uomo. Una pane che ci viene offerto nelle sue parole, ma anche nel suo corpo e nel suo sangue, perché solo alimentando la nostra vita alla sua vita è possibile vincere la morte e aprirci alla vita eterna.
È questa la volontà del Padre, che non vuole che l’umanità resti preda di quella morte che, come separazione da Dio fonte della vita, è stata introdotta nel mondo dal peccato. Il Padre non accetta che noi ci disperdiamo nel nulla, ma vuole accoglierci nel suo amore e farci uscire vittoriosi dalla morte, per condurci alla vita eterna nell’ultimo giorno, quello del giudizio. Riconoscersi figli di un Padre così pieno d’amore è il germe della nostra fede, ciò che permette di accoglierla coma una parola di luce e di speranza. Ma essa non è solo parola, è esperienza vissuta nella vita di Cristo, il Figlio mandato dal Padre perché noi avessimo la vita. Riconoscere Dio come Padre e affidarci alla compagnia fraterna di Cristo indirizza la nostra vita verso la vita stessa di Dio, una vita eterna, a cui ci introduce la risurrezione nell’ultimo giorno.
Questa fede sorregge la nostra preghiera in questo momento, ci pone in comunione con i nostri morti, che sappiamo non abbandonati al nulla, ma affidati alle mani misericordiose di Dio, per la mediazione di Cristo e della Chiesa. Pregare per i nostri morti e con loro è espressione della saldezza della fede nella risurrezione, la sola che può dare speranza alla nostra vita.
Sua Ecc.za Mons. Giuseppe Betori
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