Fino a qualche anno fa, era assolutamente proibito porsi in modo critico dinanzi al Concilio Vaticano II. Per respingere l’oltranzismo opposto, di dura marca tradizionalista, bisognava solo incensare il Concilio: nome che presto si impose per definire il Vaticano II. Bisognava parlarne sempre bene e bisognava far finta che tutto andava bene. Ma la Chiesa languiva e langue nel suo intimo. È successo qualcosa al Vaticano II?, si chiedeva il padre gesuita J. W. O'Malley. Fu quel memorando discorso di Benedetto XVI alla Curia romana, del dicembre 2005, che riuscì a rompere quel rispettoso ed irriverente silenzio dominante. Il Pontefice parlava di due ermeneutiche che si erano tra loro scontrate: quella giusta della continuità nella riforma e quella errata della discontinuità e della rottura. Dove il Concilio è stato interpretato come momento solenne della Tradizione della Chiesa, ma senza provocare sconquassi, si son visti anche i buoni frutti: la nascita di nuove congregazioni religiose, l’amore e la devozione costanti alla Madonna, la retta celebrazione della liturgia, senza estri e arbitri, la nascita di nuovi movimenti laicali, ecc. Lì dove invece ha prevalso la rottura, si è assistito al nascere, per tanti versi, di una “nuova” fede, di una chiesa antropocentrica. Dopo più di quarant’anni di recezione conciliare, dobbiamo constatare un fatto: nella Chiesa, in larga parte, ha prevalso la rottura. Il negarlo è già sintomo di avere quei paraocchi ideologici, che spingevano, nell’immediato post-concilio, e ancora adesso, a vedere tutto bello, tutto buono: anche il peccato era una cosa bella e buona, perché era una componente dell’uomo! Sì, ha prevalso purtroppo la rottura: tanti seminari vuoti, chiese semivuote, partecipazione ai sacramenti ridotta al lumicino, un fai da te esasperante, promosso spesso da una predicazione in cui il “presidente dell’assemblea” si improvvisa presentatore di un talkshow comunitario. Eppure, qui ci si appella al Concilio. La radice dell’arbitrio, comunque, è riconducibile al concetto teologico di “conciliarità”, che il Vaticano II avrebbe inaugurato. In questa interpretazione si è distinta la Scuola di Bologna, che con Alberigo e i suoi collaboratori, ha voluto espungere dai testi lo spirito, l’evento: un nuovo modo di essere chiesa oggi. Il Vaticano II sarebbe comprensibile nella misura in cui non ci si ferma solo ai dati conciliari, ma partendo dai dati, si va avanti in un crescendo sempre nuovo, purché si ignori quello che la Chiesa era stata prima. Il prima è quasi da cancellare in nome del nuovo. Non è forse vero che tanti sacerdoti si vergognano della Chiesa di prima? Di prima, appunto. Perché ormai c’è solo una Chiesa del dopo. Un dopo che però guarda ad un futuro incerto: un futuro senza un’origine è un futuro senza un’anima, senza una forma. La Chiesa si è ritrovata, in tante sue componenti, ad essere un agglomerato senza più una forma. E tanti hanno disertato i banchi delle nostre assemblee per andare ad occuparne altri, magari più comodi, ma in tanti, panche nelle quali c’era ancora un inginocchiatoio.
È prevalso il fatto che tutti sono uguali, preti e fedeli, tutti fanno la stessa cosa. Prassi, tutto è divenuto prassi; un fare che però alla fine stanca. La rottura ha fatto prevalere il fare, principiando da un’ideologia, che nella voluta equivocità del lemma “pastorale”, ha dettato i canoni di un nuovo modo di fare, ma che ha portato la Chiesa, in tante sue parti, nelle secche di un secolarismo asfissiante. L’uomo è stato messo al centro. La pastorale, in larga scala, è divenuta – in realtà non sappiamo più precisamente cosa sia – il modo pratico di adattare la sostanza della dottrina della fede al mondo che cambia, e finalmente, di adattare la fede al mondo. Non più un mondo da convertire alla fede di Cristo, ma una fede da adattare al mondo, ad un mondo contemplato già in sé santo e salvo, i cui parametri sono divenuti i nostri criteri di giudizio, il nostro porci e il nostro vivere. Il mondo è entrato nella Chiesa ma la Chiesa fa ancora fatica ad entrare nel mondo. Perché?
Tanti sforzi pastorali sono semplicemente una lettura sociologica di dati che, in verità, le statistiche dell’Istat forniscono con più precisione.
L’uomo, in verità, continua ad aver bisogno di Dio, della vera spiritualità, della vera devozione. Dobbiamo allora capire il giusto rapporto tra Chiesa, Concilio e Tradizione. Un concilio non è mai superiore alla Chiesa, né tanto meno alla sua Tradizione. Tanti hanno iniziato a credere nel Concilio e non più nella Chiesa. Un concilio non può cambiare la Chiesa. Se lo ha fatto, è segno che c’è qualcosa che non ha funzionato nella sua recezione. Tutto questo lo stiamo esaminando nel nostro convegno organizzato a Roma dal 16 al 18 dicembre 2010, dai Francescani dell’Immacolata, dal titolo: Concilio Ecumenico Vaticano II: un concilio pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica.
p. Serafino M. Lanzetta, FI
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