mercoledì 15 dicembre 2010

Il Vaticano II è un problema?

Si approssima il convegno dei Francescani dell’Immacolata sul Concilio Vaticano II come concilio pastorale, in un clima abbastanza rovente e in un crescente dibattito, segno che qui si nasconde un problema unito ad una speranza. Si desidera lumeggiare la vera natura del Concilio, quello che il Concilio stesso desiderava essere, spesso equivocata, per fare del Vaticano II o l’unico concilio dogmatico del cristianesimo o un “concilio-meteoriote”, sì da poterlo semplicemente scartare. Fino a poco tempo fa, il solo pensare di potersi porre in modo critico dinanzi al Vaticano II, appariva come una cripto-eresia per la coltre di silenzio che necessariamente doveva regnare, ammantandolo sol di lodi e di encomi. Eppure, dopo quarant’anni e più, siamo dinanzi ad un dato innegabile: la rottura e lo spirito del Concilio, ovvero quel modo di decontestualizzarlo dalla Tradizione bimillenaria, hanno prevalso e la Chiesa si è lentamente e progressivamente secolarizzata. Il mondo, in un certo senso, ha vinto sulla Chiesa; quel mondo che la Chiesa voleva raggiungere in ogni modo. Il Vaticano II è un problema? Sì, nel senso che le radici dell’estro post-conciliare non sono solo nel post-concilio. Il post-concilio non dà ragione di sé. Dunque, bisogna prendersi la briga, per amore della Chiesa e per il futuro della fede nel mondo, di andare ad esaminare la radice del problema.
Si tratta di una questione molto sottile e delicata, che richiede attenzione ed acribia. Certamente, non condividiamo quella eccessiva dogmatizzazione del Vaticano II perché Concilio Ecumenico, volta a preservare il Concilio dalle dure invettive del tradizionalismo avanzato. I problemi della rottura non sono ravvisabili solo dopo il Concilio, ma dentro lo stesso Concilio e se vogliamo, in una teologia che si delineava già nel pre-concilio: quella teologia che preferiva al metodo metafisico-scolastico, quello delle scienze umane e della filosofia moderna (Rahner è un esempio).
Ora, le domande che si delineano e che esigono una risposta chiara sono due: 1) perché ha prevalso la rottura? E, dov’è l’appiglio per dogmatizzare la rottura?
La rottura ha prevalso facendo leva su una scarsa chiarezza dogmatica che vi è nel Concilio, per il fatto, ovvio, che si pone come concilio pastorale, ma che necessariamente vuole e deve affrontare anche problemi e dati dottrinali. Si voleva far avanzare la dottrina della fede ma con un discorso pastorale: ripresentare un discorso dogmatico, così come era inteso prima, fu ritenuto anacronistico. Questo si vede ad esempio nel rinunciare in toto agli schemi già preparati.
Il preferire alla metafisica un approccio più discorsivo e la pastoralità fontale del Concilio, sono due elementi necessari per capire il tenore generale dei 16 documenti conciliari (che sono diversi e a ciascuno si deve applicare un criterio ermeneutico adatto), e la possibilità di interpretarli, quando non letti alla luce della perenne Tradizione della Chiesa, in modo surrettizio, e purtroppo giustificando questa pretesa in nome del Concilio.
Quindi si arriva alla seconda domanda. Ci si può appigliare al Vaticano II per formulare anche delle dottrine erronee o per tradire il magistero, perché i documenti, in quanto formulati con un approccio di tipo pastorale e non per definire una dottrina di fede o di morale, si lascerebbero vedere, quando assolutizzati appunto, come un patrimonio a se stante, come il modo nuovo di dire la dottrina di sempre. Qui si nasconde un altro grande problema: il lemma “pastorale” ha subito una forte evoluzione, fino a diventare, in alcuni teologi, il modo pratico di cambiare, con un nuovo linguaggio, con una nuova teologia, il modo di esporre la dottrina e finalmente la stessa dottrina. La pastorale, letta però in un modo completamente nuovo e spesso rivoluzionario, è divenuta la misura della teologia, che cambia in ragione delle epoche e dei tempi: questo sarebbe stato giustificato dal Concilio. Evidentemente, qui si piega il Concilio – che si presterebbe solo se esiliato dal suo contesto e dalla Tradizione –, ai propri desideri di aggiornamento, non della pietà cristiana e della fede soggettiva, ma della fede intesa come deposito che si evolve e può cambiare. La ragione qui è l’ingresso della categoria “storia” nell’impianto della Rivelazione. La Rivelazione sussume in sé il momento storico e la storia guida la comprensione della Rivelazione. La fede così viene subordinata all’“evento Vaticano II”, finendo col credere all’evento più che alla Chiesa-mistero.
Da tutto questo risulta che il Vaticano II (del resto come ogni altro concilio) deve essere necessariamente interpretato (anche il dogma si deve leggere sempre nel modo giusto). Ma per un’interpretazione corretta si necessita fondamentalmente di 3 cose: 1) tener conto della natura pastorale del Concilio e quindi di un progresso dottrinale o regresso, quando quel nuovo è inteso come rottura; 2) tener conto del tenore dei documenti del Concilio: i documenti nel loro insieme sono espressione di un magistero solenne e ordinario autentico; infallibile solo di riflesso, ovvero quando si richiama a dottrine già definite o a dottrine definitive tenenda, la cui definitività è espressa dallo stesso magistero. Il progresso dogmatico del Vaticano II, che può segnare un’eventuale continuità/discontinuità, va valutato alla luce della teologia, e misurato con gli strumenti teologici, per il fatto che siamo di fronte ad un magistero ordinario e non definitorio. La teologia in questo caso funge da ancella del magistero; 3) è necessario, infine, contestualizzare il Vaticano II, leggendo anche i retroscena storici che lo hanno interessato: la crisi modernista degli inizi del XX secolo; il notevole sviluppo teologico e il nuovo metodo utilizzato in teologia, non sempre però in conformità con il sentire della Chiesa; il passaggio dalla modernità alla post-modernità quale crisi degli stessi apogei conquistati dalla ragione illuminata e volontà di ribellarsi ad ogni istituzione – anche nella Chiesa entrò la contestazione –, con la rivoluzione culturale del ’68. Bisogna tener conto, in altri termini, di un mondo che è fortemente e repentinamente cambiato, per altro ora già diverso da quello presente al Concilio e previsto dall’analisi di Gaudium et spes. Di qui la necessità di un’analisi critica che sia costruttiva per un’adeguata interpretazione del dato conciliare. La Chiesa non inizia col Concilio ma con Gesù Cristo. Il metro ultimo della valutazione della fede, infatti, non è il Concilio ma la Tradizione della Chiesa. Il Concilio porta un avanzamento della comprensione della fede certo, ma non muta la Chiesa. Se la Chiesa è mutata non è in ragione del Concilio in sé, ma di una visione scorretta della “conciliarità” e quindi della stessa Tradizione della Chiesa. La Chiesa ha convocato e approvato questo Concilio come i 20 che sono alle sue spalle.
Questo significa dunque che il progresso è indiscutibile, ma ogni progresso segna comunque anche un certo regresso, in ragione delle falsità e degli errori che vi si possono celare. Si tratta di esaminare in modo critico i punti dove queste falsità possono innestarsi e quindi fare un attento esame ermeneutico del Vaticano II alla luce della fede di sempre. Quello che ci proponiamo di fare col nostro Convegno.


p. Serafino M. Lanzetta, FI

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