Il tema del messaggio del S. Padre per la Quaresima 2012 è stato desunto dalla Lettera agli Ebrei, che recita così in un passaggio: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24).
Fare attenzione al fratello, accorgersi di colui che ho accanto e vedere in lui un alter ego: così nasce la carità.
«Il grande comandamento dell'amore del prossimo – dice il Pontefice – esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore».
L’attenzione all’altro nasce dal desiderio di voler aiutare il fratello, visto come una persona, nella sua interezza, perciò dal punto di vista fisico, morale e spirituale.
Infatti, «la responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell'altro, desiderando che anch’egli si apra alla logica del bene…». Desiderare il bene dell’altro è fare del bene perché il mio fratello diventi buono e si apra anch’egli al bene. Quanto è distante il nostro concetto di carità da questa bellissima riflessione del S. Padre! Abituati al materialismo, per noi carità è dare qualcosa, un’elemosina, un soccorso immediato. Cose ottime, ma che non bastano. La carità è dare il bene, dare Dio; far sì che anche il mio fratello ritorni al bene, e vedendo dapprima in me il bene, si apra anch’egli alla sua logica. Alla logica del bene che vince la prepotenza del male.
Bisogna prendersi anzitutto cura delle sofferenze altrui, dei bisogni immediati dei nostri fratelli. Se un uomo ha la pancia vuota, con fatica, se non addirittura con disprezzo e sarcasmo, penserà al Padre nostro che è nei cieli. Dare un bicchiere d’acqua per amore di Dio, un pezzo di pane è la prima carità, quella più immediata e originaria. Ma, dicevamo, questo non basta.
Bisogna poi prendersi cura delle necessità spirituali del nostro fratello. Il S. Padre introduce nel suo Messaggio un aspetto della vita cristiana caduto ahimè in disuso, la correzione fraterna in vista dell’eternità, ovvero l’ammonire il peccatore per guadagnare la sua anima al Regno dei cieli (cf. Ef 5,11).
«E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana – scrive il S. Padre – che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo».
Ci si è appellati, in questi ultimi anni, quasi sempre, alla riscoperta della Chiesa delle origini, come nella liturgia, così nella vita di fede e nella pratica della carità. Ma è proprio così? Abbiamo riscoperto davvero la fede dei nostri primi fratelli cristiani o piuttosto, col pretesto di ritornare ai primi secoli, ci siamo fermati ai nostri tempi, accontentati semplicemente di ciò che da noi era considerato più sobrio, scevro di tanti orpelli? Dov’è quella fede che porta anche al martirio? Cosa abbiamo fatto della Croce del Signore? In realtà, abbiamo semplicemente rifiutato la trasmissione della verità, e della fede. Anche la carità così si è secolarizzata. La carità senza la fede diventa facilmente un adeguarsi alla mentalità corrente, alla legge del relativismo religioso. Se faccio un atto di carità partendo dal presupposto che tutte le religioni sono buone e salvifiche, quale contenuto avrà quel mio atto a favore del fratello? Non sarà forse solo un dargli ciò di cui ha bisogno per una vita umana più riuscita? Mi preoccuperò della sua vita eterna? Della sua salvezza? Purtroppo no. Il relativismo e il sincretismo sono una minaccia alla carità vera, all’essere spinti sempre e solo dall’amore di Cristo.
«Penso qui all’atteggiamento – continua il S. Padre – di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene».
La carità deve mirare ad un fine escatologico, al Regno di Dio. Se la carità diventa – come purtroppo è successo in tanti strati ecclesiali – il mezzo della solidarietà e della mera accoglienza, dimentichi della salvezza eterna di quelle anime, di quegli uomini che ci chiedono il pane ma anche la verità e la libertà, allora la carità diventa un’altra faccia dell’assistenzialismo sociale. La Chiesa si secolarizza a causa di una carità intenta ormai ai mezzi sociali, o forse al riscatto sociale.
La carità è la preoccupazione per l’altro, che mi appartiene, che è parte di me, dell’unico Corpo di Cristo. Entrambi dobbiamo essere salvati da Cristo:
«l’altro mi appartiene – continua il S. Padre –, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza. Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione: la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale».
Dobbiamo perciò ritornare in questa Quaresima al concetto autentico di carità: desiderare il bene integrale dell’uomo per amore di Dio; un bene naturale e soprannaturale, del corpo e dell’anima. Soprattutto dell’anima in vista dell’eterna salvezza e perciò del corpo, in vista della sua futura risurrezione alla fine dei tempi. La carità urge in noi il desiderio di avere accanto a noi nell’eternità quel fratello che abbiamo incontrato nel tempo.
p. Serafino M. Lanzetta, FI
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